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Goffredo Buccini: I quotidiani e le sfide del terzo millennio

Goffredo Buccini: I quotidiani e le sfide del terzo millennio

Goffredo Buccini, giornalista e scrittore, dirige l'edizione romana del Corriere della Sera. Appassionato, tenace, cerca costantemente il contatto con i suoi lettori, consapevole che i nuovi scenari richiedono una significativa interazione con il pubblico di riferimento. Per lui i quotidiani non sono in pericolo malgrado l'avanzata del web e della free-press. A patto però che si rinnovino...

di Elisa Barretta

 


Giornalismo e terzo millennio. Parliamo dai quotidiani. Quali scenari, in un futuro segnato dal successo della free-press e del web?

Sebbene tutti dicano che i giovani guardano solo i siti e non leggono i giornali, non credo ci sarà un collasso…In realtà penso che le cose andranno diversamente. Il problema, secondo me, sta nel modo in cui si fanno i giornali. Bisogna instaurare un rapporto di interattività. Che è una buona formula non solo per la rete. Quando parlo di interattività penso infatti alla capacità di interagire anche sulla carta stampata. Tra l’altro ho la fortuna di dirigere un giornale cittadino del Corriere della sera. Dico così perché i giornali cittadini sono avvantaggiati in quanto puoi creare un rapporto con quella che in politica americana si chiama constituency, ovvero la base elettorale. Naturalmente in questo caso si tratta di lettori, ma funziona sempre sulla fidelizzazione. Si tratta in di fidelizzare i gruppi di lettura in città, di avere uno scambio con loro. Utili, al riguardo, soprattutto le pagine delle lettere, con le varie aperture su temi diversi. Il lettore deve in qualche modo diventare una specie di giornalista aggiunto. Dobbiamo far capire piano piano che è possibile far collaborare persone comuni, non solo giornalisti.


Forse i quotidiani non riescono a trovare il modo giusto per essere vicini ai lettori. In effetti rimangono sempre un po’ “distanti” mentre altre forme di comunicazione entrano in contatto immediato con i lettori. E si ha l’impressione che non derivi solo dal tipo di mezzo utilizzato…

Sì, la chiave di successo del giornale editoriale è nell’interattività e nella popolarizzazione dei temi, nella capacità di aprire il giornale su una cosa che oggi ci sembra impensabile. Che potrebbe essere, ad esempio, un problema all’ufficio postale della capitale. Gli americani fanno così. Ho visto aperture del New York Times per le quali uno, oggi, qui verrebbe licenziato. Quindi bisogna semplicemente avere più coraggio e guardare la società in modo diverso.



Come immagini il quotidiano ideale del terzo millennio? Ti vengono in mente formule innovative?

Dobbiamo superare le preclusioni italiane nel far collaborare anche chi non fa il giornalista, come dicevo prima. In Italia abbiamo l’Ordine dei Giornalisti a cui sono favorevole perché, data la condizione politica dell’Italia repubblicana, il meccanismo di accesso alla professione era talmente infernale che si rendeva necessaria la presenza di un organo che regolamentasse .
L’Italia è un paese a democrazia immatura, a imprenditoria molto immatura. Tutto questo rende pericoloso togliere di mezzo l’Ordine dei Giornalisti. La parte patologica dell’Ordine dei Giornalisti consiste nella chiusura alla società, cioè nell’idea che al giornale ci mette mano solo il giornalista, che peraltro è una cosa che collide con l’articolo 21 della Costituzione. Quindi noi dovremmo, pur tutelando l’Ordine, aprire i giornali a chi giornalista non è. Ci sono tante formule efficaci. Faccio un esempio semplice: noi abbiamo una pagina al cui interno si trova la rubrica Ci pensa il Corriere. Questa rubrica si propone l’obiettivo di dare soluzioni concrete a problemi concreti. Recentemente, per esempio, si è sviluppato un dibattito che riguarda il parcheggio alla Marymount, una scuola che sta sulla Nomentana. I genitori dei bambini della Marymount vanno ad accompagnare i bambini ma, data l'assenza di un parcheggio, sono costretti a mettersi in doppia fila creando ingorghi dalla Nomentana fino a Montesacro. Una cosa selvaggia. Molti di questi genitori assumono come un "diritto costituzionale" la doppia fila in quanto obbligati a fare così affinché i loro figli godano del diritto all'istruzione. Un dibattito curioso, questo, che dalle pagine delle lettere è finito sui nostri articoli. Noi abbiamo preso i nostri lettori e ne abbiamo fatto delle fonti. Ecco, questo è un esempio di come può funzionare il giornalismo negli anni che verranno. Non dico che il giornale sarà fatto dai lettori, ma sarà sempre di più il giornale dei lettori. I confini tra giornalisti e lettori saranno sempre meno rigidi.


Esiste ancora, oggi, il buon giornalismo d’inchiesta?

Se vieni da una scuola di giornalismo ti insegnano di Tommaso Besozzi, della sua famosa inchiesta sulla morte del bandito Giuliano per l’Europeo, con il pezzo che cominciava: “L’unica cosa certa è che è morto”. Besozzi ribaltava le false certezze che davano gli investigatori… Però a fronte di esempi brillanti, rari, negli anni ’50 e ’60 avevi un giornalismo orribile, un giornalismo conformista. Insomma, tutto meno che un giornalismo d’inchiesta. Quindi non è affatto vero che solo una volta ci fosse un grande giornalismo d’inchiesta. Scalfari era un grande giornalista d’inchiesta, ma non si trattava mica di un giornalismo così comune. La leggenda sul giornalismo d'inchiesta di una volta mi sembra abbastanza infondata. E al giorno d'oggi un buon giornalismo d'inchiesta lo si fa lo stesso. Mi piace ricordare, per esempio, l’ottimo lavoro di Gatti sull’Espresso. Fabrizio Gatti peraltro viene dal Corriere della sera, ed è ancora giovane, ha quarant' anni. Come inviato dell’Espresso ha fatto un ottimo giornalismo d’inchiesta, per esempio. Nel nostro giornale di città noi domani (giovedì 8 febbraio, ndr) andiamo sulla prima pagina con un reportage di una collega che è stata una settimana a Trastevere - per una nostra inchiesta sull’abusivismo commerciale - con una bancarella a piazza Sant’ Egidio. Il giornalismo d’inchiesta è una cosa che si fa quando si può. Se se ne è fatto poco in Italia, perchè i giornali sono molto condizionati dalla politica. Quando fai un’inchiesta vai a sbattere facilmente su qualcuno che ti condiziona. Ma non c’è mai stata la stagione d’oro del giornalismo d’inchiesta. Credo invece che potrebbe venire. Chissà...
Comunque per certi aspetti la nuova generazione è molto più preparata della mia. Quando io avevo vent’anni al mio ingresso nella redazione di un giornale ho trovato molti quarantenni e cinquantenni poco alfabetizzati e tanto raccomandati. Perché? Perché non c’erano le scuole di giornalismo, perché entravi nei giornali solo se eri figlio di giornalista, o per raccomandazione politica.
Quindi stiamo parlando di un giornalismo che non può che migliorare. Inoltre avere più fonti di informazione, come accade oggi, anche in virtù delle agenzie stampa, è un bene. Certo, c’è una grande messe di notizie che poi va gestita redazionalmente. Però non è vero che la quantità delle informazioni vada a scapito della qualità della cronaca.


Tu scrivi anche libri. Come hai vissuto il passaggio dalla notizia alla finzione narrativa?

Io ho sempre detto che è più probabile che un macellaio scriva un buon romanzo piuttosto che a farlo sia un giornalista. Perché quello narrativo è uno stile completamente differente. Non si tratta solo della scrittura, ma del l’approccio alla realtà. Cambia l' attenzione alle cose che racconti. Quando io scrivo un romanzo tendo addirittura a non leggere i giornali, ovviamente solo per un breve periodo: scrivo romanzi nei periodi di ferie. È un altro approccio. Tendenzialmente fare il giornalista è abbastanza penalizzante al momento dell’ingresso nella narrativa, perché quello del giornalista è un mestiere che non ti perdonano se provi a fare lo scrittore. In questo caso mi fa piacere citare un esempio di grande giornalista e scrittore, Riotta, che secondo me non ha avuto il successo che meritava - per esempio con il bellissimo romanzo il Principe delle nuvole, perché giornalista. Diciamo che c’è una forma di prevenzione nel mondo della cultura alta verso chi viene dal giornalismo. Te lo devi far perdonare, insomma.

Che pensi invece di Saviano, che propone un romanzo-inchiesta, Gomorra, che riscuote grandi plausi ma che sembra forse un po’ sopravvalutato?

Sicuramente è un'opera coraggiosa, il cui successo la dice lunga sulla difficoltà dei giornali, al sud, di raccontare come si deve una certa realtà. Si vede che la gente ha un grande desiderio di esserne informata. È un ottimo libro.

Scrivendo di Chatwin Roberto Calasso dice che aveva “occhi e orecchie prensili”. Dovrebbe essere così, per il buon giornalista?

Il vero giornalista è una persona colta, dotata non di una cultura straordinaria, ma di una buona cultura generale che gli permetta di capire quello che sta sentendo. Deve anche essere una persona che ha una certa propensione a verificare le cose che legge o che sente. Mi pare che il primo passaggio sia cominciare a leggere qualche libro, il secondo quello di uscire per strada.

Non è un peccato che il lavoro di desk-top e delle agenzie di stampa abbia reso un po’ più sedentario questo mestiere?

La verità è che oggi si hanno a disposizione tante fonti. Stiamo parlando di un giornalismo che non può che migliorare, perché avere più fonti d’informazione rende solo più preparati quando si va a fare un servizio. Ma è evidente che non sempre puoi andare sul posto, dipende dai servizi di cui ti occupi. Poi c’è una grande messe di notizie che poi va gestita redazionalmente, però non è affatto vero che la quantità di informazioni vada contro la qualità del servizio.


Il giornalista di questo millennio, rispetto al passato, quali caratteristiche dovrebbe affinare?

Secondo me – ripeto - non sarebbe male aver letto tre libri, possibilmente non tutti della stessa materia ma di materie diverse. E poi imparare l’inglese. Se ti portassi a fare una passeggiata nel più grande giornale d’Italia, che è il mio, incontreresti un sacco di gente che non lo sa; se poi ti portassi in giro per i palazzi della politica, troveresti ancora più gente che non lo sa. Io sono molto ottimista, perché secondo me la generazione dei ragazzi che si affaccia al giornalismo oggi è mediamente più preparata, e se non mitizza le generazioni precedenti farà un ottimo giornale dappertutto.


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