Giovanni De Mauro è il direttore editoriale di Internazionale, che ogni settimana seleziona e pubblica gli articoli più interessanti della stampa estera. Il suo giornale è sempre all'avanguardia, sempre alla ricerca di nuovi stimoli. In questa conversazione ci racconta il percorso della sua creatura ma anche gli scenari contemporanei del giornalismo...
di Francesca Pacini
Per fortuna arrivo alla sede di Internazionale senza ritardo. A Roma è sempre una scommessa. Giovanni De Mauro mi accoglie in una stanza ampia, accogliente. Sul tavolo, una pila di quotidiani che attendono di essere letti. La parete è piena di libri ma la distanza del mio punto di osservazione mi impedisce di leggere i titoli. C’è silenzio ma allo stesso tempo si annusa un’atmosfera intensa, di grande fervore. I modi di Giovanni sono sempre molto eleganti, cortesi, misurati. Ha quarant’anni ma sembra molto più giovane. Fa parte di quelle persone che ti mettono subito a tuo agio.
Giovanni, per cominciare mi racconti la genesi di Internazionale?
Internazionale è nato nel 1993. Un po’ casualmente, a dire il vero. Io all’epoca lavoravo per l’Unità, agli esteri. Ho visto un giornale francese che si chiamava Courrier International e che usciva già da un paio d’anni. Mi è sembrata un’idea interessante, divertente. Così ho deciso di provare a vedere se era possibile realizzarla anche in Italia.
All’inizio, nel ’93, eravamo in quattro, in una stanza di una decina di metri quadrati e quattro macintosh collegati con una rete provvisoria dato che internet non era ancora diffusa. C’era il web, ma l’email era ancora appannaggio solo del mondo accademico. Sembra un’epoca quasi preistorica.
Quanti anni avevi a quel tempo?
Ventotto.
E il tuo percorso, fino a quel momento?
Ho cominciato a lavorare all’Unità come grafico quando avevo diciotto anni, poi sono passato alla cronaca di Roma. Ho cambiato un paio di volte mansione, in seguito. All’epoca della mia partenza per la Francia, lavoravo agli esteri.
Torniamo un attimo a questa rivista francese. È stato amore a prima vista?
Sì. Eravamo in piena Tangentopoli, all’epoca. Il paese era abbastanza ripiegato su se stesso. Quella rivista rappresentava una ventata d’aria fresca. I fondatori erano quattro persone che non venivano dal mondo del giornalismo. Era un modello interessante, quello del Courrier International. Si tratta di una rivista molto diversa da Internazionale. Lavora più sulla grande quantità che sulle piccole cose. Ma l'idea all’origine è la stessa: pubblicare il meglio di quello che, secondo la redazione, compare nella stampa estera.
Una scelta molto coraggiosa, la tua, in un paese dove il popolo dei lettori è piuttosto evanescente. Mi racconti il percorso fatto da una piccola redazione a un giornale affermato, amato, che raccoglie il plauso del pubblico?
La redazione è cresciuta lentamente. All’inizio abbiamo avuto difficoltà economiche, abbiamo fatto errori. E poi c’è stato un punto di svolta. Le cose sono migliorate progressivamente. Vendiamo molte copie in abbonamento, il resto in edicola. Chi ci compra in edicola raramente lo fa tutte le settimane ma a intervalli che possono essere di quindici giorni, di un mese. Dipende dalla copertina, da cosa fa il tuo concorrente…
Ecco, hai detto concorrente. Mi fai venire in mente una cosa. Internazionale ha rivali in Italia? Esiste, cioè, una concorrenza simile a quella che esiste fra il Corriere e Repubblica?
I nostri concorrenti sono di due tipi. Da una parte un concorrente diretto, Diario, l’altro giornale che i lettori valutano il venerdì mattina. Simile a noi come area, come pubblico di riferimento. Da un punto di vista più generale, dei contenuti, i concorrenti sono tutti i grandi giornali italiani che negli ultimi anni hanno cominciato a pubblicare sempre di più la stampa straniera. E i loro supplementi, come Venerdì, Magazine…
Come lavorate in redazione per la scelta della pubblicazione?
Il meccanismo è abbastanza semplice e tradizionale. L’unica differenza significativa rispetto agli altri giornali è che non scriviamo ma selezioniamo articoli scritti da altri. C’è però una parte importante della cosiddetta “cucina redazionale”. Per ogni firma pubblicata ci sono almeno una, due persone che fanno un lavoro di confezione, impaginazione, titolazione, correzione, editing, revisione.
Questi passaggi rappresentano un lavoro non visibile in termini di firma, di notorietà. Ma il lavoro c’è, ed è grosso. Le traduzioni sono affidate invece all’esterno. Per il resto, il lavoro è uguale a quello degli altri giornali. C’è una redazione in cui vengono esposti gli argomenti, gli articoli, i temi, che vengono scelti con criteri in parte soggettivi e in parte oggettivi. Cerchiamo infatti di unire alla copertura dell’attualità l’esplorazione di temi diversi.
Quanti siete nella scelta degli articoli? C’è un comitato?
In redazione oggi complessivamente siamo ventotto.
Non siete pochi…
Sul settimanale lavorano a tempo pieno la metà delle persone. Il lavoro di selezione viene fatto anche esternamente.
Com’è il tuo lettore ideale? Negli anni ti sarai fatto un’idea.
Non lo so. Non ho mai fatto indagini di mercato. Sono convinto che i giornali debbano riuscire a non ripetere una formula. Credo che il lettore tipo porti invece a ripeterla, la formula. Da un certo punto di vista, il lettore tipo non esiste perché lui stesso cambia nel tempo. I giornali sono difficilmente sottoponibili a indagini di mercato. E poi devono essere uguali ma diversi. Cioè devono essere riconoscibili (come voce, impaginazione, ecc.) ma allo stesso tempo avere anche la capacità di stupire, di aggiungere qualcosa. L’equilibrio fra queste due cose è molto difficile. Se hai l’impressione di leggere sempre la stessa cosa tendenzialmente non la ricompri, viceversa se ogni volta ti trovi davanti stravolgimenti nell’impaginazione, o nella quantità di cose proposte, non compri più perché queste variazioni ti generano ansia. Bisogna mantenere la capacità di rinnovarsi, di reagire agli eventi, immaginando ogni volta un tipo di lettore diverso. Fondamentalmente noi facciamo un giornale che se non facessimo ci piacerebbe comprare.
Sono d'accordo. Le idee migliori nascono quando pensiamo a cosa sarebbe piaciuto innanzitutto a noi stessi. Il lettore tipo è la persona stessa che fa il giornale.
Sì. I nostri lettori non a caso tendono a somigliarci. Sono persone che vivono in grandi città, che viaggiano molto all’estero, che leggono un sacco di libri, che vanno al cinema, che pensano che il mondo non si esaurisce nei confini di questo paese, che hanno il satellite, guardano i documentari… Un’élite che ci consente comunque di sopravvivere. Molto esigenti, i nostri lettori. Ci fanno le pulci, stanno attenti. Pretendono di essere trattati da persone adulte…
Come hai impostato il dialogo con loro, nel tuo giornale?
All'inizio avevamo aperto una pagina di lettere. Ma eravamo stati sommersi dalla posta. In quel momento il giornale avevamo ancora poche pagine, quindi abbiamo deciso di togliere questa pagina. Poi, due anni fa, abbiamo introdotto di nuovo uno spazio. Il giornale si è anche “normalizzato”, ha seguito un processo evolutivo insieme ai lettori che sono cresciuti con noi. E che sono diventati anche più elastici. Il giornale, all’inizio, era in bianco e nero, progressivamente è invece diventato più allegro, dinamico…
A questo proposito, osservando la comunicazione che fate su internet, si vede una grande apertura, un modo di fare molto “giovane”.
Ho l’impressione che l’età dei nostri lettori si sia abbassata anche perché abbiamo introdotto i fumetti, uno strumento che inevitabilmente abbassa un po’ l’età.
A proposito dei fumetti, come è nata questa bella iniziativa editoriale?
È una novità, quella del fumetto. Ma strisce, disegni, li avevamo anche prima. Non mi sembra un’idea difficile, quella di mettere insieme cartoonist della Costa d’Avorio e di Manhattan, provando a offrire una rassegna di quello che viene pubblicato anche in questa direzione.
Forse in Italia siamo ancora arretrati rispetto al fumetto, alla graphic novel...
Siamo arretrati, sono d'accordo.
Ti ricordi Cardiaferrania pubblicato da minimum fax, qualche anno fa? Era un esperimento grafico molto innovativo.
Sì, era bello.
Tu però hai scritto qualcosa che mi ha colpito. Hai detto che si può parlare di graphic journalism e non solo di graphic novel.
Sì, perché in America viene chiamata graphic novel ma può essere, a tutti gli effetti, anche graphic journalism. Novel significa romanzo, però poi questa stessa etichetta si applica anche ai reportage dall’Iraq o altre espressioni. Il romanzo dopo Gomorra di Saviano lo dimostra sicuramente. C’è una zona di confine che ha come tratto caratteristico una certa attenzione alla contemporaneità, e che usa gli stili e gli strumenti che ritiene più adeguati: possono essere stili propri del romanzo adattati però alla descrizione della realtà che ci circonda, oppure gli stili del fumetto, della fotografia, dei mix fra queste cose… Fra gli autori dei nostri libri spicca Atul Gawande, un giovane ma affermato chirurgo di origine indiana che collabora con il New Yorker e racconta delle cose vere, accadute realmente, usando il ritmo e lo stile di E.R.
Scusa il gioco di parole, ma Internazionale è molto… internazionale. Siete all’avanguardia rispetto a certi preconcetti di un giornalismo tradizionale, che ancora vede di cattivo occhio alcune contaminazioni, specie nel campo culturale. Da parte tua, invece, ci sono benevolenti aperture verso nuove forme di espressione.
Sì, ma non è solo merito mio. Qui, a Internazionale, siamo più permeabili di altri rispetto a quello che ci succede intorno. Fa parte nel nostro modo di essere, non possiamo fare altrimenti. Siamo il risultato delle scelte di tante altre persone, di articoli innovativi che vengono da ogni parte del mondo.
Leggi tanta stampa estera. Qual è secondo te la differenza principale tra il giornalismo anglosassone, francese, e quello italiano?
Difficile dirlo. Ogni paese ha la sua storia. La stampa italiana non è poi così malvagia. Esiste una grande scuola che è quella anglosassone, americana, all’interno della quale troviamo quattro, cinque grandi giornali. Ma vicino a quella grande tradizione circola anche tanta spazzatura. Ci sono intoppi, magagne, cose che non funzionano.
Bisogna anche dire che i giornali inglesi sono molto diversi. Hanno uno standard deontologico molto più basso di quello americano. Ci sono differenze di confezione attribuibili a fattori culturali. E poi ci sono i grandi giornalisti. Anche nei giornali scandalistici inglesi troviamo una, due, tre firme che scrivono cose molto interessanti, molto belle. E nel glorioso New York Times ci sono alcune firme che scrivono male, in modo noioso. Quindi è difficile dare definizioni.
I giornali sono lo specchio dell’identità, della storia, della cultura di un paese. Sono convinto che la stampa sportiva, quella popolare e quella gratuita siano comunque fondamentali. È più facile arrivare a leggere il Financial Times partendo da un quotidiano popolare piuttosto che dal nulla. Ci sono gradini che volendo si possono salire. L’operaio che prende la metropolitana di Londra ogni mattina, e che non legge niente, non si sveglia all’improvviso decidendo un giorno di comprare il Financial Times o il Guardian. ha più probabilità di arrivarci, semmai, leggendo gli scandalistici, i gratuiti. La lettura è importante, qualunque cosa si legga.
Io condivido, ma sai che ci sono due schieramenti…
Sì, ma non siamo in una condizione tale, in Italia, da permetterci di avere la puzza al naso. Tutto purché si legga, insomma. Perché l’alternativa è la non lettura. Chi non è abituato a leggere non si mette improvvisamente a letto, la sera, per aprire un libro di Platone.
Comunque voi siete uno dei pochissimi giornali che non usa il gadget.
Qui siamo in guerra. I giornali combattono contro la loro stessa obsolescenza. Sono soprattutto i quotidiani a soffrire, schiacciati perché vecchi la mattina seguente. Sono incalzati da internet, dagli sms, dalla televisione…
Non hanno neanche abbastanza spazio per dedicarsi agli approfondimenti, al “dietro le quinte”. Sei ore non bastano per fare questo. Quindi i giornali, a partire dai quotidiani, sono drammaticamente in crisi di identità. Devono reinventarsi lo spazio. Non possiamo però permettere ai giornali cittadini di non trovare soluzioni alla crisi in quanto svolgono una funzione fondamentale.
A essere in crisi è il modello. Il dibattito sulle iniziative collaterali è aperto. Che i grandi giornali favoriscano l’ingresso di tonnellate di libri bellissimi nelle case degli italiani (case che a volte non hanno neppure la libreria) rappresenta un dato positivo. I libri devono entrare in circolo. La gente chiamava Repubblica lamentandosi del fatto che Il giovane Holden aveva il dorso bianco (imposto dall’autore e dalla Einaudi) all’interno di una collana i cui dorsi erano tutti color crema, carta da zucchero, protestando per questa scelta che rovinana la cromìa. Altri chiamano per informarsi sulle prossime uscite decidendo così che scaffale comprare. C’è perfino la signora che chiama perché scopre che le manca un sedicesimo nel libro acquistato in allegato al giornale, uscito magari quattro anni prima. Però lo ha preso in mano, lo ha letto.
Se in questa guerra editoriale i gadget sono i libri, e questi libri consentono ai giornali di trovare risorse economiche, e ai lettori di leggere cose che magari in libreria non comprerebbero, non bisogna per forza gridare allo scandalo.
Tu però non usi il gadget.
Noi per ora possiamo permettercelo.
Sei fra quelli che temono l’avvento di internet come sterminatore della carta stampata?
Non so cosa ci sarà domani. So però che i giornalisti ci saranno sempre. La forma che invece prenderà il giornalismo sarà comunque dettata dalla tecnologia. Credo che abbia ragione l’editore del New York Times quando dice di non sapere se fra cinque anni il suo giornale uscirà ancora nella versione cartacea. Sì, ci sono i primi esperimenti con l’inchiostro digitale. Ma il giornalismo non morirà.
D’accordo, Giovanni. Ti ringrazio per questa bella conversazione.
Grazie a te.