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Storia: l’enigma di Kaspar Hauser (Storie n. 26, 1997)

Storia: l’enigma di Kaspar Hauser (Storie n. 26, 1997)

Kaspar Hauser, ragazzo senza patria né origini un giorno, all’improvviso, compare a Norimberga. È il 1812. Si mormora addirittura che sia il legittimo erede al trono. Per altri, è solo un selvaggio. D’altronde, lui non parla... Questa è la storia di un mistero vissuto da una nazione intera.

di Francesca Pacini


“Non so. Vorrei diventare cavaliere, come mio padre”. Nell’ufficio di polizia, il forestiero fissa i funzionari senza rispondere alle loro domande. Solo questo ritornello evasivo, quasi imparato a memo­ria. È giovane, potrebbe avere diciassette anni, porta abiti contadi­ni ma soprattutto non parla. Ripete solo questa frase, l’unica che sembra essergli familiare. È il 26 maggio del 1828. Oggi Norimberga è deserta: in occasione del lunedì di Pentecoste gli abitanti si sono concessi una ricreazione in campagna. Poche ore prima, qualcuno, che aveva disertato la gita, si era imbattuto in un ragazzo piuttosto bizzarro. Si trascinava, barcollando, nell’incer­tezza di una meta precisa. In tasca, una lettera indirizzata al capi­tano del reggimento di cavalleria. Quindi è stato condotto al posto di guardia. Adesso, però, interrogato sulla sua provenienza, oppo­ne un involontario mutismo: il linguaggio, per lui, è un’ipotesi addirittura remota. Nessun documento ad attestare le sue origini. Con un fremito di orrore respinge la carne offerta da un poliziotto. Però gradisce pane e acqua. Piange, si lamenta, infine cede a un puerile entusiasmo. Gioca, lancia trilli di gioia. È buffo, quasi comico: in lui si coglie un bambino prestato a un corpo adulto. Le sue maniere sommano istinto e candore, meraviglia e acerbità. È estraneo a ogni teoria sociale: forse è un selvaggio, o magari un demente. Se almeno parlasse...

Fra la meraviglia di tutti, appunta un nome su un pezzo di carta: Kaspar Hauser. Si moltiplicano, i dubbi, davanti alla lettera che esi­bisce. Scritta in caratteri gotici, raduna la confessione di un non meglio precisato bracciante: dichiara di aver ricevuto, di nascosto e da sconosciuti, un neonato. Era il 7 ottobre del 1812. Lo ha cresciuto nella sua casa finché non gli ha indicato la strada per Norimberga. Ecco, infatti, un altro biglietto, con una differente grafia, scritto presumibilmente circa sedici anni prima.

Qui, una donna raccomanda suo figlio. Lei è solo una domestica senza fortuna, il complice di quel parto, invece, è morto. Quindi la necessità di affidare ad altri il bambino. Compiuti diciassette anni, però, potrebbe inserirsi nel reggimento di cavalleria in cui, sostie­ne, militava suo padre. A Norimberga, appunto. Il piccolo è nato il 30 Aprile del 1812 e si chiama Kaspar Hauser... Kaspar Hauser. Questo, dunque, il nome dello straniero. Eppure inquietano, que­ste reticenze che sembrano coprire vicende collaterali, versioni fur­tive, segreti protetti. Un’analisi chimica del 1828 chiarisce infatti che le lettere sono frutto del medesimo inchiostro.

Nel frattempo, Kaspar è ospitato in una torre. Presto attira l’at­tenzione di numerosi scienziati. Nel suo fisico notano subito sin­golari dettagli: i piedi privi di callosità, come pure le ginocchia deformi, insinuano l’assenza di pratiche motorie. Ignora l’uso degli arti, e gli è impossibile sostenere un’andatura coerente. Come se non avesse mai camminato. Lui, intanto, vomita ogni sorta di cibo, tollerando solo pane e acqua. Trascorre le giornate trastullandosi con alcuni cavalli di legno a cui rivolge cure strug­genti: non distingue, ingenuo, la finzione dalla realtà. La sua mente avverte solo una infantile interpretazione del mondo. Ora intuisce, e fronteggia, un ambiente esterno, qualcosa “altro” da sé. Mai sospettato prima, perché non sa nulla del mondo. La torre diventa la meta di una folla divertita che vede in lui un fenomeno da baraccone, un esserino eccentrico e pure un po’ stupido. Adunate ilari, spesso mortificanti. Kaspar comunque sorride sem­pre, innocente.

Le chiacchiere autorizzano però anche visite illu­stri. Come Anselm Von Feuerbach, insigne giurista, consigliere della Corte d’Appello e fautore dell’abolizione della pena di morte. Sconcertato ma anche affascinato da questo caso, ne segue scrupo­losamente tutti gli sviluppi. Qualche anno più tardi, raccoglierà il materiale in un lavoro che allinea rigore e commozione, impronta documentaristica e respiro narrativo. Il libro, il cui titolo è “Kaspar Hauser” (ora pubblicato da Adelphi) raduna, e indaga, fatti e circostanze. Feuerbach suggerisce l’affidamento a un tutore, il professor Daumer. Grazie alla sua premura didattica, il linguag­gio frugale di Kaspar, che all’inizio gestiva meno di cinquanta parole, matura brillanti progressi che gli permettono, finalmente, di raccontare la sua segregazione in un luogo angusto, privo di finestre (come testimonia la sua insofferenza alla luce), dove è stato costretto a giacere, seduto, sul pavimento. Allevato a pane e acqua da un uomo che, a causa dell’oscurità, è rimasto un presen­timento, una figura avvertita ma non conosciuta. Non rammenta nulla del suo pellegrinaggio fino a Norimberga.

È un allievo esem­plare: scruta, sperimenta, impara. Spesso cede a una malinconia brusca, improvvisa: difficile, ora, risarcire tutti quegli anni inutiliz­zati. Una privazione che però stimola una straziante smania di apprendimento. Fissa, rapito, le nevicate, come pure le variazioni cromatiche della campagna. Ostenta una memoria eccellente che fonde alle prime, rudimentali astrazioni. Conquiste che, tuttavia, non colmano il divario fra l’età anagrafica e quella intellettuale. È il 1829 quando Kaspar teorizza perfino una biografia. Ormai non è più un pettegolezzo, in Europa, ma evoca già le suggestioni della leggenda. Il brusìo sull’eventuale pubblicazione allerta qualcuno e, nell’ottobre dello stesso anno, uno sconosciuto, intro­dottosi a casa del professor Daumer, aggredisce il ragaz­zo. Ma il braccio di Kaspar, alzato in un fremito di sopravvivenza, ammortizza un colpo che, altri­menti letale, si tra­sforma così in una ferita alla tempia.

La sua fastidiosa sopravvivenza trat­tiene davvero com­plotti insaputi. Una volta, raccontando un sogno, il ragaz­zo menziona un palazzo (o forse un castello) le cui architetture opu­lente configurano un fasto che non ha mai osservato nella realtà. Pure, la fan­tasia onirica non è sufficiente, da sola, a sostenere invenzioni che non si ispirino a episodi vissuti. Quel vaccino su un braccio, privilegio sanitario di cui godono solo le famiglie aristocratiche, insinua un’idea molesta eppure lucida: Kaspar è il rampollo illegittimo di un illustre casato. Spacciato per morto, rapito, sostituito nella culla con un cada­verino “strategico”. Una simulazione dovuta a un probabile intri­go dinastico volto a estinguere i maschi di una discendenza crucia­le. Di qui la condizione clandestina come alibi per una morte pre­sunta. Già, ma allora perché non ucciderlo? L assassinio avrebbe cancellato, e risolto, una prova ingombrante. È anche vero, però, che Kaspar, allo sbaraglio, sarebbe facilmente finito in un istituto per dementi se non fosse diventato, con più fortuna, il servitore tonto di qualche signore.

Chissà, il boia ha forse modificato la con­danna intimata in una prigionia più ido­nea agli scrupoli della coscienza. Comunque, ora Kaspar esiste, e fa vacil­lare, suo malgrado, gli incastri combinati da altri. Il sospetto approda al casato dei Baden, segnato da un lutto acerbo ma, per qualcuno, pure benvenuto. Il gran­duca Carlo Federico si è sposato in secon­de nozze con Luisa Hochberg, ma è al pri­mogenito di Stephanie de Beauharnais, l’antica moglie, che spetta la successione al trono tedesco. Ma il principino N.N. muore senza raggiungere il primo anno di età. Nello stesso mese, guarda caso, in cui Kaspar viene abbandonato. Le loro date di nascita, in effetti, rivelano uno scarto: il primo nasce il 29 settembre mentre il secondo, avverte la lettera che aveva con sé, vede la luce il 30 aprile. Tuttavia, quest’ultima data non è trascu­rabile: collima con la nascita del secondo figlio di Stephanie, Alexander. Deceduto anche lui – toh – quattro anni dopo. Insomma, coincidenze e differenze dovute, si presume, a ovvie manipola­zioni. Artefice, Luisa Hofhbach. Invidiosa della sorte riservata alla prole della rivale, è lei la cospiratrice perfetta. E tutte le corti europee incriminano i Baden.

Una condanna (sia pure morale e non giuridica) che da quel momento imbratta l’onore della famiglia reale. È necessario proteggere Kaspar, che viene trasferito da Norimberga ad Ansbach. Privo di una vocazione concreta, si cimenta, senza trasporto, in alcuni lavoretti in cartone. Tanto per garantirsi la sopravvivenza economica. È il 1833, ormai ha ventuno anni. Non è diventato, purtroppo, un individuo compiuto: le lace­razioni di una gioventù mutilata hanno sopraffatto ogni entusia­smo. Ma è buono, Kaspar, e conserva intatta una grazia spontanea. Mantiene un’impronta romantica che coniuga a un’innocenza quasi primitiva. Pericolosa, però. Un mattino di dicembre, infatti, un uomo lo attira in parco e lui, candido, accetta l’invito. Un appuntamento fatale. Qualcuno, nascosto in un cespuglio, gli lan­cia una borsa. Kaspar avverte una trafittura. Tre giorni di agonia, poi la sua vita è conclusa. Il 27 maggio dello stesso anno, Feuerbach moriva stroncato da un attacco intestinale. Qualcuno mormorò di un avvelenamento da arsenico. Curioso: era il lunedì di Pentecoste, esattamente cinque anni dopo l’arrivo del suo pro­tetto a Norimberga. Alla stessa ora. In seguito il suo libro sarà osteggiato, ritirato più volte dalla circolazione. Alle congetture già note si aggiungono aneddoti che adombrano implicazioni interna­zionali. Come l’ambiguo interesse di Lord Stanhope,un diplomatico inglese che prima solidarizza con il povero Kaspar per poi diffon­dere, dopo il decesso, giudizi tutt’altro che confortanti (lo qualifica come un vagabondo astuto e incline alla bugia). Inquieta, inoltre, il ritrovamento di una lettera in cui lui accenna all’assassinio di Kaspar quando i giornali non hanno ancora diffuso la notizia. Forse il suo destino si inserisce nella contesa fra anglosassoni e napoleonidi (Stephanie de Beauharnais è infatti la nipote di Napoleone).

L’avventura del ragazzo senza radici né patria (ribat­tezzato “das kind von Europa”) ha suggestionato storici, scienziati e pure registi (pensiamo a Werner Herzog e al suo “L’enigma di Kaspar Hauser”, girato nel 1976). A Monaco, nell’archivio di Stato, sono conservati quarantanove volumi che documentano tutta la vicenda. Il re Luigi I di Baviera li ha letti tutti. Gli abiti insanguina­ti di Kaspar sono conservati in Germania. Recentemente, però, alcuni ricercatori di Monaco hanno confrontato il DNA rinvenuto su una macchia dei pantaloni con quello di due discendenti dei Baden (Stephanie Von Zallinger – Stillendorf, una, l’altra ha prefe­rito l’anonimato). Dall’esame risulta la sua estraneità a quella famiglia. Peraltro, ci sono storici che discutono addirittura la cor­rettezza del nome. Kaspar Hauser, dicono, era un eroe della resi­stenza tirolese che, allora, contrastava i propositi espansionisti della Baviera. Si tratterebbe di un nome beffardo affibbiato, da un capo partigiano, al figlio di una relazione illecita tra una donna e un ufficiale nemico. L’importuno ragazzo sarebbe poi stato caccia­to in Baviera.
L’origine e il martirio di Kaspar sono un enigma cronico. Che ancora stupisce, turba, commuove. Non importa se circoli come una chiacchiera o una convinzione assoluta. Goffo ma non ridico­lo, sprovveduto ma non stupido, incarna con agio l’idiota dostoevskiano. Ecco, forse, il vero segreto irrisolto. Quello, cioè, di un’ eccezione alla malizia del mondo.
Da “Storie”, n. 25, marzo-aprile ’97, a. VI, pp. 71-76

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