Kaspar Hauser, ragazzo senza patria né origini un giorno, all’improvviso, compare a Norimberga. È il 1812. Si mormora addirittura che sia il legittimo erede al trono. Per altri, è solo un selvaggio. D’altronde, lui non parla... Questa è la storia di un mistero vissuto da una nazione intera.
di Francesca Pacini
“Non so. Vorrei diventare cavaliere, come mio padre”. Nell’ufficio di polizia, il forestiero fissa i funzionari senza rispondere alle loro domande. Solo questo ritornello evasivo, quasi imparato a memoria. È giovane, potrebbe avere diciassette anni, porta abiti contadini ma soprattutto non parla. Ripete solo questa frase, l’unica che sembra essergli familiare. È il 26 maggio del 1828. Oggi Norimberga è deserta: in occasione del lunedì di Pentecoste gli abitanti si sono concessi una ricreazione in campagna. Poche ore prima, qualcuno, che aveva disertato la gita, si era imbattuto in un ragazzo piuttosto bizzarro. Si trascinava, barcollando, nell’incertezza di una meta precisa. In tasca, una lettera indirizzata al capitano del reggimento di cavalleria. Quindi è stato condotto al posto di guardia. Adesso, però, interrogato sulla sua provenienza, oppone un involontario mutismo: il linguaggio, per lui, è un’ipotesi addirittura remota. Nessun documento ad attestare le sue origini. Con un fremito di orrore respinge la carne offerta da un poliziotto. Però gradisce pane e acqua. Piange, si lamenta, infine cede a un puerile entusiasmo. Gioca, lancia trilli di gioia. È buffo, quasi comico: in lui si coglie un bambino prestato a un corpo adulto. Le sue maniere sommano istinto e candore, meraviglia e acerbità. È estraneo a ogni teoria sociale: forse è un selvaggio, o magari un demente. Se almeno parlasse...
Fra la meraviglia di tutti, appunta un nome su un pezzo di carta: Kaspar Hauser. Si moltiplicano, i dubbi, davanti alla lettera che esibisce. Scritta in caratteri gotici, raduna la confessione di un non meglio precisato bracciante: dichiara di aver ricevuto, di nascosto e da sconosciuti, un neonato. Era il 7 ottobre del 1812. Lo ha cresciuto nella sua casa finché non gli ha indicato la strada per Norimberga. Ecco, infatti, un altro biglietto, con una differente grafia, scritto presumibilmente circa sedici anni prima.
Qui, una donna raccomanda suo figlio. Lei è solo una domestica senza fortuna, il complice di quel parto, invece, è morto. Quindi la necessità di affidare ad altri il bambino. Compiuti diciassette anni, però, potrebbe inserirsi nel reggimento di cavalleria in cui, sostiene, militava suo padre. A Norimberga, appunto. Il piccolo è nato il 30 Aprile del 1812 e si chiama Kaspar Hauser... Kaspar Hauser. Questo, dunque, il nome dello straniero. Eppure inquietano, queste reticenze che sembrano coprire vicende collaterali, versioni furtive, segreti protetti. Un’analisi chimica del 1828 chiarisce infatti che le lettere sono frutto del medesimo inchiostro.
Nel frattempo, Kaspar è ospitato in una torre. Presto attira l’attenzione di numerosi scienziati. Nel suo fisico notano subito singolari dettagli: i piedi privi di callosità, come pure le ginocchia deformi, insinuano l’assenza di pratiche motorie. Ignora l’uso degli arti, e gli è impossibile sostenere un’andatura coerente. Come se non avesse mai camminato. Lui, intanto, vomita ogni sorta di cibo, tollerando solo pane e acqua. Trascorre le giornate trastullandosi con alcuni cavalli di legno a cui rivolge cure struggenti: non distingue, ingenuo, la finzione dalla realtà. La sua mente avverte solo una infantile interpretazione del mondo. Ora intuisce, e fronteggia, un ambiente esterno, qualcosa “altro” da sé. Mai sospettato prima, perché non sa nulla del mondo. La torre diventa la meta di una folla divertita che vede in lui un fenomeno da baraccone, un esserino eccentrico e pure un po’ stupido. Adunate ilari, spesso mortificanti. Kaspar comunque sorride sempre, innocente.
Le chiacchiere autorizzano però anche visite illustri. Come Anselm Von Feuerbach, insigne giurista, consigliere della Corte d’Appello e fautore dell’abolizione della pena di morte. Sconcertato ma anche affascinato da questo caso, ne segue scrupolosamente tutti gli sviluppi. Qualche anno più tardi, raccoglierà il materiale in un lavoro che allinea rigore e commozione, impronta documentaristica e respiro narrativo. Il libro, il cui titolo è “Kaspar Hauser” (ora pubblicato da Adelphi) raduna, e indaga, fatti e circostanze. Feuerbach suggerisce l’affidamento a un tutore, il professor Daumer. Grazie alla sua premura didattica, il linguaggio frugale di Kaspar, che all’inizio gestiva meno di cinquanta parole, matura brillanti progressi che gli permettono, finalmente, di raccontare la sua segregazione in un luogo angusto, privo di finestre (come testimonia la sua insofferenza alla luce), dove è stato costretto a giacere, seduto, sul pavimento. Allevato a pane e acqua da un uomo che, a causa dell’oscurità, è rimasto un presentimento, una figura avvertita ma non conosciuta. Non rammenta nulla del suo pellegrinaggio fino a Norimberga.
È un allievo esemplare: scruta, sperimenta, impara. Spesso cede a una malinconia brusca, improvvisa: difficile, ora, risarcire tutti quegli anni inutilizzati. Una privazione che però stimola una straziante smania di apprendimento. Fissa, rapito, le nevicate, come pure le variazioni cromatiche della campagna. Ostenta una memoria eccellente che fonde alle prime, rudimentali astrazioni. Conquiste che, tuttavia, non colmano il divario fra l’età anagrafica e quella intellettuale. È il 1829 quando Kaspar teorizza perfino una biografia. Ormai non è più un pettegolezzo, in Europa, ma evoca già le suggestioni della leggenda. Il brusìo sull’eventuale pubblicazione allerta qualcuno e, nell’ottobre dello stesso anno, uno sconosciuto, introdottosi a casa del professor Daumer, aggredisce il ragazzo. Ma il braccio di Kaspar, alzato in un fremito di sopravvivenza, ammortizza un colpo che, altrimenti letale, si trasforma così in una ferita alla tempia.
La sua fastidiosa sopravvivenza trattiene davvero complotti insaputi. Una volta, raccontando un sogno, il ragazzo menziona un palazzo (o forse un castello) le cui architetture opulente configurano un fasto che non ha mai osservato nella realtà. Pure, la fantasia onirica non è sufficiente, da sola, a sostenere invenzioni che non si ispirino a episodi vissuti. Quel vaccino su un braccio, privilegio sanitario di cui godono solo le famiglie aristocratiche, insinua un’idea molesta eppure lucida: Kaspar è il rampollo illegittimo di un illustre casato. Spacciato per morto, rapito, sostituito nella culla con un cadaverino “strategico”. Una simulazione dovuta a un probabile intrigo dinastico volto a estinguere i maschi di una discendenza cruciale. Di qui la condizione clandestina come alibi per una morte presunta. Già, ma allora perché non ucciderlo? L assassinio avrebbe cancellato, e risolto, una prova ingombrante. È anche vero, però, che Kaspar, allo sbaraglio, sarebbe facilmente finito in un istituto per dementi se non fosse diventato, con più fortuna, il servitore tonto di qualche signore.
Chissà, il boia ha forse modificato la condanna intimata in una prigionia più idonea agli scrupoli della coscienza. Comunque, ora Kaspar esiste, e fa vacillare, suo malgrado, gli incastri combinati da altri. Il sospetto approda al casato dei Baden, segnato da un lutto acerbo ma, per qualcuno, pure benvenuto. Il granduca Carlo Federico si è sposato in seconde nozze con Luisa Hochberg, ma è al primogenito di Stephanie de Beauharnais, l’antica moglie, che spetta la successione al trono tedesco. Ma il principino N.N. muore senza raggiungere il primo anno di età. Nello stesso mese, guarda caso, in cui Kaspar viene abbandonato. Le loro date di nascita, in effetti, rivelano uno scarto: il primo nasce il 29 settembre mentre il secondo, avverte la lettera che aveva con sé, vede la luce il 30 aprile. Tuttavia, quest’ultima data non è trascurabile: collima con la nascita del secondo figlio di Stephanie, Alexander. Deceduto anche lui – toh – quattro anni dopo. Insomma, coincidenze e differenze dovute, si presume, a ovvie manipolazioni. Artefice, Luisa Hofhbach. Invidiosa della sorte riservata alla prole della rivale, è lei la cospiratrice perfetta. E tutte le corti europee incriminano i Baden.
Una condanna (sia pure morale e non giuridica) che da quel momento imbratta l’onore della famiglia reale. È necessario proteggere Kaspar, che viene trasferito da Norimberga ad Ansbach. Privo di una vocazione concreta, si cimenta, senza trasporto, in alcuni lavoretti in cartone. Tanto per garantirsi la sopravvivenza economica. È il 1833, ormai ha ventuno anni. Non è diventato, purtroppo, un individuo compiuto: le lacerazioni di una gioventù mutilata hanno sopraffatto ogni entusiasmo. Ma è buono, Kaspar, e conserva intatta una grazia spontanea. Mantiene un’impronta romantica che coniuga a un’innocenza quasi primitiva. Pericolosa, però. Un mattino di dicembre, infatti, un uomo lo attira in parco e lui, candido, accetta l’invito. Un appuntamento fatale. Qualcuno, nascosto in un cespuglio, gli lancia una borsa. Kaspar avverte una trafittura. Tre giorni di agonia, poi la sua vita è conclusa. Il 27 maggio dello stesso anno, Feuerbach moriva stroncato da un attacco intestinale. Qualcuno mormorò di un avvelenamento da arsenico. Curioso: era il lunedì di Pentecoste, esattamente cinque anni dopo l’arrivo del suo protetto a Norimberga. Alla stessa ora. In seguito il suo libro sarà osteggiato, ritirato più volte dalla circolazione. Alle congetture già note si aggiungono aneddoti che adombrano implicazioni internazionali. Come l’ambiguo interesse di Lord Stanhope,un diplomatico inglese che prima solidarizza con il povero Kaspar per poi diffondere, dopo il decesso, giudizi tutt’altro che confortanti (lo qualifica come un vagabondo astuto e incline alla bugia). Inquieta, inoltre, il ritrovamento di una lettera in cui lui accenna all’assassinio di Kaspar quando i giornali non hanno ancora diffuso la notizia. Forse il suo destino si inserisce nella contesa fra anglosassoni e napoleonidi (Stephanie de Beauharnais è infatti la nipote di Napoleone).
L’avventura del ragazzo senza radici né patria (ribattezzato “das kind von Europa”) ha suggestionato storici, scienziati e pure registi (pensiamo a Werner Herzog e al suo “L’enigma di Kaspar Hauser”, girato nel 1976). A Monaco, nell’archivio di Stato, sono conservati quarantanove volumi che documentano tutta la vicenda. Il re Luigi I di Baviera li ha letti tutti. Gli abiti insanguinati di Kaspar sono conservati in Germania. Recentemente, però, alcuni ricercatori di Monaco hanno confrontato il DNA rinvenuto su una macchia dei pantaloni con quello di due discendenti dei Baden (Stephanie Von Zallinger – Stillendorf, una, l’altra ha preferito l’anonimato). Dall’esame risulta la sua estraneità a quella famiglia. Peraltro, ci sono storici che discutono addirittura la correttezza del nome. Kaspar Hauser, dicono, era un eroe della resistenza tirolese che, allora, contrastava i propositi espansionisti della Baviera. Si tratterebbe di un nome beffardo affibbiato, da un capo partigiano, al figlio di una relazione illecita tra una donna e un ufficiale nemico. L’importuno ragazzo sarebbe poi stato cacciato in Baviera.
L’origine e il martirio di Kaspar sono un enigma cronico. Che ancora stupisce, turba, commuove. Non importa se circoli come una chiacchiera o una convinzione assoluta. Goffo ma non ridicolo, sprovveduto ma non stupido, incarna con agio l’idiota dostoevskiano. Ecco, forse, il vero segreto irrisolto. Quello, cioè, di un’ eccezione alla malizia del mondo.
Da “Storie”, n. 25, marzo-aprile ’97, a. VI, pp. 71-76