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Salotti sbagliati (Storie n. 26, 1997)

Salotti sbagliati (Storie n. 26, 1997)

II 6 giugno del 1838 Balzac abbandona Milano. Non ci tornerà più. Il suo soggiorno è stato tormentato da ostilità e malintesi. Che vi raccontiamo.

di Francesca Pacini

 


"È un segno premonitore di guerra", mormora qualcuno indicando il bagliore nel cielo notturno. L'auspicio, però, non disturba l'en­tusiasmo dei cittadini milanesi. Radunati nelle piazze, affacciati alle finestre, continuano, meravigliati, a fissare in alto, gli occhi rivolti verso quella cometa che ora illumina i tetti. Ecco, sta diffon­dendo una luce bianca: l'aurora boreale. È il 18 febbraio 1837.

La mattina seguente, una carrozza si arresta davanti all'hotel Bella Venezia, in piazza San Fedele. Nessuno ad attendere l'uomo che, aperto lo sportello, scende. È basso, e la corporatura pesante non tollera movimenti troppo rapidi. Eppure, quegli occhi acuti, quasi affilati, sembrano sfidare l'opulenza del fisico. Borbotta qualcosa, in un probabile mormorio di disapprovazione; poi, rilut­tante, varca la soglia dell'albergo. Sembra irritato dall'accoglienza frugale. Lui, infatti, è Honoré de Balzac. "Quella cometa del 18 feb­braio", dirà più tardi, "era apparsa per annunciare me. Anche se poi, in effetti, nemmeno un cane mi aspettava". Strano: questo episodio trat­tiene un'ombra, quasi un presagio dei fatti che, di lì a poco, mole­steranno la sosta dello scrittore a Milano.

Ad ogni modo, è giunto nella città lombarda come inviato del conte Guidoboni-Visconti per trattare una questione patrimoniale relativa a un'eredità. Una visita quasi furtiva, quindi. La stampa, infatti, non è informata. La Gazzetta provinciale del giorno 21, annota, laconica, nella "Lista dei forestieri arrivati in città il giorno 19", l'arrivo di un tal "signor Balzac, possidente". Dunque la società milanese non sospetta la sua presenza. In realtà, Balzac è scovato quasi subito. La scoperta si deve a Defendente Sacchi, giornalista della Gazzetta, ma soprattutto fervido ammiratore della letteratu­ra francese. E lui a indagare l'identità del "possidente" d'oltralpe. Si apposta, infatti, per scrutarlo da lontano , poi, verificate le infor­mazioni, il 22 pubblica la notizia circa l'avvistamento del celebre autore di "Papa Goriot". La sua fama, infatti, lo consegna già alla cronaca letteraria come un talento munito di estro e rigore analiti­co: le sue opere, che analizzano la Francia della Restaurazione, sommano ipotesi filosofiche, sociologiche e antropologiche. Il 23 febbraio, sulla "Gazzetta Privilegiata", Antonio Piazza non gli lesi­na toni celebrativi: "Avete visto l'aurora boreale? E il signor Balzac, l'avete visto? Ecco le due domande che fatalmente ciascuno vi pone in questi giorni. Solo che l'aurora boreale è già quasi dimenticata, mentre il nome di Balzac è sulle labbra di tutti e lo si ripete come una dolce parola d'amore. Tutti lo vogliono vedere e tutti pretendono di averlo visto”.

In effetti, da questo momento le famiglie aristocratiche se lo con­tendono. Frequenta i casati più prestigiosi, dividendosi fra Trivulzio, Belgioioso, Porro-Lambertenghi, Melzi, Sormani, Vimercati, Bolognini, Visconti. La contessa Clara Maffei garantisce al suo salotto il debutto di Balzac nella società milanese. D'altronde, lei, ansiosa, attendeva da tempo questa sua gita in Italia. Solo, non l'avevano informata sul giorno preciso in cui sarebbe arrivato. Poco importa, adesso Balzac è lì, in via Monte di Pietà, al numero 870, e, appena giunto, la sta osservando. Emozionata, esclama: "J'adore te genie!". Una frase, questa, rappre­sentativa degli umori candidi, e pure un po' frivoli, che si mescola­no alle teorie letterarie discusse, nei salotti, dagli invitati. Certo, Balzac non lusinga il gusto estetico: così tarchiato, robusto, per non parlare dei lineamenti piuttosto volgari, non può offrire alcun appagamento visivo. Ma per la Maffei non è una sorpresa; poco tempo prima, la contessa Fanny Sanseverino Porcia le aveva invia­to, da Parigi, una missiva in cui la allertava sui tratti somatici dello scrittore, come a premunirla dalla delusione: "Se lo immagina forse grande e snello, pallido e scarno, con una di quelle fisionomie che sono già un'ispirazione e una poesia? Si guardi veh, da così bella aspettazione! Egli è un uomo piccolo, grasso, paffuto', rotondo, rubicondo, con due occhi però neri, e scintillanti di fuoco nel dialogo, il fuoco della sua penna". La solerte amica, in una lettera precedente, le aveva confi­dato che intendeva, appunto, recarsi a Milano: "De Balzac, con Teofilo Gautier, suo amico, viene a Milano. Io lo raccomando alla mia gentilissima Chiarina e all'illustre Maffei. Il celebre letterato francese conosca così le grazie, e ammiri l'ingegno italiano. Egli troverà, ne sono certa, nella vostra casa le cortesi accoglienze a cui ha diritto: ed io soddi­sfo, facendovi conoscere a lui, un orgoglio d'amicizia e di patria".

A parte la mancata presenza, in realtà, di Gautier, la Sanseverino Porcia sbaglia la previsione sull'idillio intellettuale fra Balzac e gli italiani. Per il momento, comunque, lui sembra divertirsi: dialoga con le signore, lancia battute scherzose, gradisce la frutta e il vino che gli vengono offerti. È ospite perfino del governatore della Lombardia, il conte Hartig.
Il 28 febbraio, sul "Corriere delle dame", Antonio Piazza rivela che Balzac, nella sua camera, "indossa una specie di saio che lo fa scambiare per un monaco o un ballerino". In realtà, adora circondarsi di tuniche da camera, fermate in vita da una cintura con ghiande d'oro. Nulla di strano: vulnerabile alle suggestioni della moda, è sempre intento a perfezionare il guardaroba. Una debolezza che talvolta sfocia nell'ossessione: qualche tempo prima, a Parigi, aveva commissionato dodici paia di guanti gialli, tutti uguali, indi­spensabili per essere "à la page". Accumula indumenti e oggetti lussuosi con lo stesso fervore con cui precisa i romanzi. Neanche i debiti, praticamente insolvibili, riescono ad attenuare la sua sma­nia mondana.

Ad ogni modo, lo scultore Puttinati, folgorato dall'accon­ciatura di Balzac, gli regala una statuina in scagliola, scol­pita per l'occasione, ricevendo in cambio un racconto a lui dedicato, "La vendetta". E, come se non bastasse, Giulietta Pezzi, figlia del direttore della "Gazzetta privilegiata" e aspi­rante poetessa (di scarso talen­to, in realtà), improvvisa alcu­ne odi che consegna, orgoglio­sa, allo scrittore. Le ha pensate apposta per lui. Andrea Maffei, il consorte della con­tessa, azzarda l'invio di una sua traduzione di Schiller, in attesa di un parere. C'è anche chi pubblica una serie di arti­coli critici sulle sue opere (si tratta di Ignazio Cantù). Insomma, un vero tripudio. Eppure, il sodalizio con i mila­nesi si incrina.

Verso i primi di marzo, un episodio sgradevole sembra quasi annunciare le future ten­sioni. Sta passeggiando, Balzac, quando qualcuno lo aggredisce, sottraendogli l'orologio. Dunque si reca all'ufficio di polizia per denunciare il furto: "Alle quattro e mezzo, arrivando da contrada Magnani sulla piazza San Fedele, all'angolo dell'albergo Bella Venezia, un giovane piuttosto robusto si è gettato su di me e mi ha strappato l'orologio con la catena. La catena vale 150 franchi. L'orologio 800 franchi, ed ha quattro rubini. Le cifre del qua­drante sono cifre romane". Non poteva certo trattarsi di un orologio qualunque... Naturale, subito la notizia compare in tutti i giornali, che pero la arricchiscono con qualche licenza: si moltiplica, l'ag­gressore, trasformandosi in "quattro banditi mascherati", un Balzac irritato ma illeso diventa, sulla stampa, lacero e sanguinan­te in seguito a una lotta feroce. Lo zelo della polizia permette comunque di recuperare l'orologio dopo soli tre giorni, e l'incauto ladro viene processato. Ricominciano, così, gli appuntamenti sociali. Festini, chiacchiere, ostentazioni. Ma forse Balzac si annoia.

Strano, adesso è avaro di parole, proprio lui, che nella "Comediè Humaine", il capolavoro i cui personaggi "fanno concorrenza all'ana­grafe", non rinuncia a nessun dettaglio descrittivo, neanche il più marginale. Il conversatore brillante cede ora il passo a un uomo schivo, che spesso, muto, si apparta, trascurando le discussioni. Qualche volta, sprofondato su un divano, si addormenta mentre gli altri, disorientati, bisbigliano per non disturbarlo. Ecco, è inizia­to il declino degli entusiasmi. Davvero insolito, poi, per quegli ari­stocratici così avvezzi al protocollo, trovarsi davanti a un indivi­duo insofferente alla buona creanza. D'altronde, Balzac non riser­va sempre le maniere di un galantuomo, e questo, peraltro, non è per lui motivo di cruccio: è un'anima inquieta, che non aderisce volentieri agli schemi previsti. Infatti, in una lettera alla duchessa d'Abrantès, si descrive così: "Io racchiudo in me tutte le incoerenze, tutte le possibili divergenze e coloro i quali mi credono supeficiale, prodi­go, caparbio, farfallone, incostante nelle idee, leggerone, svogliato, scon­troso, sbadato, sgarbato, capriccioso non hanno meno ragione di quelli che mi ritengono avveduto, smisurato, audace, costante, riservato, raffinato, allegro e simpaticamente spigliato".

Certo, così Balzac comincia ad alimentare l'irritazione di molti milanesi, e Andrea Maffei, stanco delle sue stravaganze ma forse anche geloso della venerazione esibita dalla consorte, un giorno dichiara: "Questa sta diventando una balzaccomania". Aggiunge, maligno "Eppure è brutto, grasso, è un uomo eccentrico, carico di anelli, coi capelli acconciati a toupé". La contessa Clara, invece, accompagna Balzac nelle sue infaticabili escursioni in città. Nonostante la piog­gia, perlustra Brera, San Marco, Piazza del Duomo... Un'inchiesta urbana, proprio come quelle che definiscono i suoi romanzi, fra cui "Ferragus", pubblicato nel 1833. Molti anni più tardi, infatti, nella prefazione a questo libro (edito da Einaudi), l'eloquenza di Calvino così caratterizzerà l'ambizione dei progetti balzachiani: "Far diventare romanzo una città: rappresentare i quartieri e le vie come personaggi dotati ognuno d'un carattere in opposizione con gli altri... far sì che in ogni mutevole momento la vera protagonista sia la città vivente, la sua continuità biologica...". Parla, Calvino, del "poema topografico di Parigi", della città "come linguaggio, come ideologia, come condiziona­mento d'ogni pensiero parola e gesto...". Eccolo, allora, Balzac, che indaga quartieri e meraviglie architettoniche per carpire avversio­ni, tendenze e teorie. Teme, però, che l'arte sia un espediente per riscattare un mancato fervore patriottico.

Nonostante l'euforia che aveva accompagnato il suo arrivo, inizia a criticare il popolo italiano, gente, dice, “non eccessivamente dotata di una radicata coscienza naziona­le". Si riferisce alle molteplici dominazioni subite, che disorientano una salda, e omoge­nea, identità politica; non basta il giovane riscatto del Risorgimento, con la sua schiera di eroi temerari: una soluzione tardiva, insufficien­te, ritiene, alla costruzione di un'Italiacompatta.

Indispettito, il milanese Antonio Lissoni redige una "Difesa dell'onore dell'armi italiane, oltraggiato dal signor de Balzac". Non sbagliava, probabilmente, l'uomo che aveva interpretato la cometa come un segno di guerra. "Sono afflitto di sapere Balzac a Milano, più che se mi avessero annunciato l'invasione dei bar­bari"', scrive, da Parigi, Nicolò Tommaseo, in una missiva destinata a Cesare Cantù. E aggiunge, in un impeto di invidia: "Non è che uno scritto­re di maniera... Manca di imma­ginazione". Inoltre, ora Balzac è la preda di chiacchiere maliziose, voci che insinuano una fuga in Italia a causa di alcuni debiti imbarazzanti. Chissà, magari si trova a Milano proprio per sfuggire a qualche creditore... Insomma, il declino è iniziato.
L'idolo presunto diventa per tutti un uomo mediocre, affogato nella superbia, incline alla maleducazione. Chiaro, a parlare così sono soprattutto quelli che, poco prima, lo adulavano senza misu­ra. Un'atmosfera ostile, sostenuta da denunce e risentimenti. Si appigliano alle sue evasioni sentimentali, discutono le avventure affaristiche poco felici. Da molto, in effetti, Balzac tenta speculazio­ni piuttosto ardite, che includono progetti tipografici e sfrutta­menti minerari. Attività che, purtroppo, talvolta falliscono aumen­tando così i debiti che dovrebbero invece risolvere. C'è chi ne approfitta per accumulare pettegolezzi. Lui, quindi, preferisce iso­larsi nella sua stanza, dove scrive a M.me Hanska (che poi spo­serà). Sono lettere amare, colme di nostalgia per Parigi.

Tuttavia, c'è un altro artistache a Milano diserta i salotti, ora covo di pettegolezzi insidiosi. È Alessandro Manzoni. Balzac chiede un incontro. Una conversazione di cui l'autore dei Promessi Sposi non parlerà mai. Sembra, comunque, in base alla testimonianza del suo figlioccio, Stefano Stampa, che si sia trattato di un collo­quio freddo, tutt'altro che cordiale. Balzac avrebbe detto: "Vedete, ho tentato anch'io il genere religioso nel mio 'Medico di campagna', ma non ho avuto il successo che mi aspettavo". Allora l'altro, non meno tagliente, fa osservare all'ospite, come racconta poi Stampa, che "...per avere successo nel genere religioso non bisogna farne l'oggetto di una speculazione letteraria qualunque, ma è necessario, per trattare quel genere, avere delle profonde convinzioni religiose in se stessi". Da que­sto momento Balzac è detestato con maggior convinzione. Il 15 Aprile "La voce della verità" lo taccia di fremiti anticlericali. Pure il "Corriere delle dame", prima indulgente, si accanisce contro di lui in un articolo intitolato "Capogiri letterari".

Nonostante tutto, c'è qualche momento distensivo, propiziato dalle signore che ancora si intrattengono volentieri con lui, vinte da quell'intelletto sagace, in verità assai raro. Ma il malumore segna giornate ormai insanabili: allo stremo della sopportazione, si concede un viaggio a Venezia. Neppure lì, però, mancano disap­provazioni e scandaletti. In seguito a un duro parere sul Manzoni, espresso durante un ricevimento, la "Gazzetta privilegiata di Venezia" gli dedica un articolo ostile, che naturalmente legittima, a Milano, le ennesime critiche. Al suo ritorno, Balzac si ripresenta a casa Maffei. Tra gli sguardi sorpresi e irritati, brillano gli occhi ancora solidali di Clara. "Sono semplicemente di passaggio"', annun­cia. Prima di partire scrive al Manzoni una lettera in cui si coglie un sussulto di malinconia: "Cara Italia! Per una parola, tutta una città vi difende. Se voi m'aveste giudicato severamente a Parigi, anche il mio amico più intimo vi avrebbe dato ragione". Infine, parte.
L'anno successivo, approfittando di un viaggio in Sardegna, si ferma di nuovo a Milano dove tenta una riconciliazione, ma la città è indifferente: gli entusiasmi appartengono ormai a giorni remoti. Solo i Porcia, amici da tempo, lo accolgono affettuosa­mente. Ospite a casa loro, chiuso in una camera, scrive insaziabili lettere d'amore alla contessa Hanska. "Mi sento come un uccello in gabbia", le confida. Ed è proprio in quella stanza che abbozza le prime pagine del romanzo "Memoires des deux jeunes mariées".

La frattura con gli italiani è quindi irreparabile. Tuttavia, è forse frutto di esagerazioni e malintesi. Balzac è brusco, talvolta irruen­te, e questo autorizza interpretazioni esasperate: in fondo, i suoi modi espliciti non si conciliano necessariamente con la supponen­za. Peraltro, l'Italia travagliata dalle guerre risorgimentali demo­nizza subito, e senza mediazione, chiunque osi dubitare della coe­sione patriottica. Anche se Balzac, lungimirante, comprende che non basta l'unità geografica, finalmente suggellata da quella politi­ca, a smaltire anni di conflitti, dominazioni, separazioni. Ma, soprattutto, la propensione a drammatizzare, dai salotti alla carta stampata, estremizza i disagi. È anche vero che, irrequieto quanto stravagante, Balzac ha un'indole ribelle, talvolta provocatoria, quindi votata agli scandali. La sua analisi della situazione in Italia, però, non è così visionaria. Del resto, si avvertono ancora oggi, in questo scorcio di fine secolo, divari e lacerazioni.
Ma, purtroppo, al di là degli isterismi, gli italiani, offesi, non cer­cano motivi di riflessione. Il 6 giugno 1838 Balzac abbandona Milano. Non tornerà mai più.


Da “Storie”, n. 26, maggio-giugno ’97, a. VI, pp. 39-45
 

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