La città per chi passa senza entrarci è una, e un'altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui si arriva la prima volta, un'altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene. L'altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.
(Italo Calvino, Le città invisibili)
di Francesca Pacini
Ogni città pulsa di vita propria. È storia, racconto di luoghi e persone. Labirinto di voci e di strade che parlano di cose antiche e moderne.
Le città hanno un carattere, una personalità. Ti affascinano o ti respingono. Ricordo ancora – ricorderò per sempre – l’emozione vibrante davanti a una Los Angeles notturna, tanti anni fa, che stendeva il suo tappeto scintillante di luci verso l’aereo che preparava la sua discesa. Ricordo la distesa immensa, il luccichio che già raccontava di spazi enormi, molto diversi da quelli a cui ero abituata in Italia. Fissavo la città degli angeli dal finestrino e anche io mi sentivo un po’ come loro, un po’ come gli angeli che ogni giorno bisbigliano osservando dall’alto la vita delle metropoli, sopra il cielo di tutte le Berlino del mondo.
Da lassù uomini e cose si mescolano e si rincorrono. A volte un po’ senza senso. Come quando ogni mattina all’improvviso le strade diventano ricettacoli di macchine imbottigliate nel traffico, tutti a pigiare a gridare a correre verso gli uffici. Lo stesso rituale inverso la sera, al rientro dalle faccende del giorno, quelle che ti costringono negli uffici o in giro per appuntamenti.
Le città si somigliano molto nelle pause pranzo, con i lavoratori sparpagliati come ragazzini in festa rincorsi dal tempo: i più sfortunati, quelli che il tempo afferrerà per primi scagliandoli di nuovo nelle stanzette dei loro uffici, sbocconcellano in fretta un panino rubando minuti al loro dovere, altri invece, quelli che appartengono alla casta dei privilegiati, si avventurano nei ristoranti, menu fisso 10 euro, per ritagliarsi la loro oretta di chiacchiere e cibo.
Sulle strade delle città gli operai, seduti sugli scalini, consumano il loro pasto di sandwich e birra. I ragazzini invece si danno tutti appuntamento ai Mc Donald, orribile omologazione che lega Barcellona a Hong Kong, Buenos Aires a Dublino. Eccolo, uno dei simboli della globalizzazione che vorrebbe fare di ogni città un omogeneizzato.
E invece l’anima delle città resiste, si nasconde – furtiva - nei vicoli, scende in strada nelle ore deserte per gustarsi i dettagli che altrimenti scompaiono, ingoiati dal traffico.
Nascondono una moltitudine di storie, le città.
Storie che si affacciano alle finestre, brulicano nelle strade, si intersecano e poi tornano a essere parallele, procedono vicine, una accanto all’altra, senza unirsi mai più.
Di queste storie è tessuta ogni geografia urbana. Ognuna con la sua anima particolare, irripetibile.
Quando studiavo a Milano, ricordo che a Piazza Duomo, sulla quale sbucavo ogni giorno dopo i sotterranei della metropolitana, respiravo la fretta, l’urgenza, il procedere alla rinfusa di tutti. Tutti correvano, correvo anch’io. Acceleravo il passo senza un perché.
Il tempo, a Milano, è davvero denaro.
Più tardi conobbi invece i languori di Roma, la città che fermò le mie migrazioni, che mise una frontiera davanti alle inquietudini dei miei spostamenti.
Roma è un suk assolato. È un caos ciarliero - a volte magari un po’ cafone - però ti trascina, ti seduce, ti vince.
E’ meraviglia, è estetica dei luoghi e gaiezza delle persone.
A Roma volentieri rimani. È una città che si dà da fare per adottarti, incantandoti con la sua versatilità che unisce sacro e profano.
Come sono diverse, Roma e Milano.
Due modi di essere, di vivere, di sentire le cose del mondo.
Non è vero che le città sono tutte uguali, malgrado le pretese della globalizzazione.
Per fortuna le città sono tutte diverse. Come le persone che le abitano.
Al di là dei facili stereotipi che puzzano di macchietta umoristica, davvero il nord e il sud sono abitati da modi differenti, davvero narrano di diverse interpretazioni del mondo.
Di Napoli, la città che incanta i sensi e li smarrisce in un vortice senza ritorno, magico luogo dove si incrociano l’Acqua e il Fuoco, la liquidità dell’emozione e la fiamma dell’ardore creativo, la Femmina e il Maschio dei nostri archetipi antichi, di Napoli, dicevo, conservo sempre un ricordo speciale che poggia sulla memoria di passeggiate senza meta, di estasi e rapimenti in cui danzavano architetture e persone, di canoni inversi in cui gli orientamenti si scambiano il posto.
E ricordo un pranzo in famiglia, uno di quei pranzi meridionali in cui si sfianca il tempo a forza di restare lì, seduti intorno alla tavola apparecchiata con risate e affetti, circondata da persone che radunano storie, aneddoti, pettegolezzi. Che si scambiano idee. Si parla, si parla sul serio mentre il cibo stordisce i sensi ma allo stesso tempo ravviva la lingua.
Così diversa, Napoli, da una città come Torino. Una piena di problemi eppure spensierata; l’altra ordinata, pulita, ma un po’ freddina. Un’anima più riservata, quella di Torino, meno propensa alle dispersioni, alle ubriacature dei sensi. Della città piemontese ricordo soprattutto la bellezza dei vecchi palazzi, con i tetti nordici su cui, come tanti occhi, vegliano le finestrelle degli abbaini.
I racconti di città hanno un’anima tutta loro, irripetibile.
“La città vive in me come un poema che non m’è riuscito di fissare in parole”, scrive Borges in una poesia. E altrove aggiunge: “Ormai le strade di Buenos Aires sono le viscere dell’anima mia”.
Perché davvero fra ogni città e i suoi abitanti si stabilisce una muta corrispondenza, un patto speciale.
Il ventre di Roma, Tokyo o Berlino nasconde sempre i segreti della sua gente. Segreti penetrabili solo a investigazioni accorte, lontane dalle pappe precotte per i turisti, lontane da ogni Mc Donald e ogni Coca Cola che solo in apparenza rendono il mondo tutto uguale.
Racconti di città e racconti di paese si differenziano per quantità e qualità.
Io sono nata in provincia, a Senigallia, nelle terre marchigiane che sanno di buona campagna e di mare. Anche Senigallia ha i suoi racconti. A me stavano stretti. Io ero una cacciatrice di storie.
Volevo mescolare il fiato a respiri più grandi, girare in quartieri capaci di annullare l’identità regalando momenti di straordinario anonimato (quell’anonimato che però in altre situazioni diventa pesante, terribilmente pesante), nuotare nelle esperienze di altri, in un confronto dialettico da alternare all’isolamento. Volevo perdere lo sguardo nelle distese di tetti e di antenne, infilarmi in spazi nuovi attraversati da una moltitudine di abitanti.
Di tutte le città visitate e vissute conservo le storie nella mente e nel cuore.
Ma ancora oggi fra tutte brilla il ricordo di quella Los Angeles notturna che mi aspettava con le sue promesse di spazi enormi e di genti lontane. Avrei vissuto a san Diego, a un’ora da lì, per un anno. Dunque c’era in me anche la trepidazione per una sosta diversa dalle solite gite turistiche.
Quelle luci accese nella notte – lassù, dall’aereo – mi entrarono nella pelle.
Ancora oggi, se chiudo gli occhi, sento di nuovo quella sensazione.
E mi emoziono.