Praga magica, Praga tragica
Le suggestioni della città di Kafka, Hrabal e Kundera convivono con la modernizzazione. Ma ci sono anche le contraddizioni e le stranezze di un post-comunismo che ha ceduto il passo, talvolta malvolentieri, al consumismo. La cronaca di un vagabondaggio - in forma di racconto - con appunti in ordine sparso.
di Francesca Pacini
E pensi che ancora una volta ti sei fatta fregare dalla globalizzazione. Sei seduta davanti a un cheeseburger a Màla Strana. Da qui iniziano le salite ripidissime che portano al Castello, quello che ispirò a Kafka l’omonimo e mai terminato romanzo. Stavolta però, in questo luglio piovoso, niente gite culturali, già praticate , qui, in passato. Sono esonerata dalle frenesie che, cartina in mano e zaino in spalla, spingono il turista a trottare selvaggiamente per la città perché in un tempo cronometrato deve toccare i luoghi fondamentali; architetture, musei, ponti e, appunto, Castelli. Ẻ bello godersi Praga dondolandosi sulle anse del tempo, senza direzioni. Un po’ come nei romanzi di Kundera. Un tempo comunque pessimo, la pioggia battente stropiccia gli occhi, le temperature sembrano più quelle ottobrine (quelle dell’ottobre boemo, intendiamoci). Saranno contenti i praghesi classe 1950 e paraggi, che vedono i turisti come un esercito di cavallette che infestano la loro città: un po’ di pioggia non guasta, li fa rintanare negli alberghi o nei locali. Li guardano con facce perplesse, e se qualcuno prova a chiedere informazioni si nascondono dietro una raffica di consonanti podzim zakàzàn obsazeny odpoledne pravà che li salva dall’inglese per tutti; alzano le spalle e si mettono in salvo dall’europeizzazione. Già da piccoli, quando per avere un gelato, “zmrzline”, bisogna centrifugare la lingua, si coglie subito l’ incombente tragicità dell’esistenza.
E bevono, i cechi, bevono cisterne di birra. L’altra sera in locale piccolissimo poco distante dal centro Mikola mi confermava questa avversione . Certo, Mikola è bielorusso, una variante minima di quella grande Madre Russia che qui ha fatto qualche casino; forse anche per questo si sente un po’ isolato. Ẻ un richiamo mistico, la birra, quasi una tappa obbligata per penetrare le atmosfere boeme, sempre riluttanti nel farsi avvicinare, il cordone invisibile che lega gli abitanti alla città. Letizia mi ha raccontato del suo amico Ales che aveva un locale proprio qui, a Malà Strana. Un posticino intimo tutto per cechi (pure quelli d’adozione come lei, che vive qui da nove anni) senza insegne pubbliche vicino al portone. Ales segnava una tacca sul muro per ogni cliente che faceva crollare. Alla fine quel muro doveva essere una sorta di simbolo del graffitismo etilico post-moderno post- comunista…Non c’ era più andata, lei, perché ogni volta tornava a casa a quattro zampe, col fegato in lacrime e una prognosi che durava almeno due giorni. Non si beve solo birra, infatti, ma una serie di liquori a base di erbe fra cui il leggendario assenzio, la “fata verde ” di Rimbaud, Baudelaire, Van Gogh e tanti altri. Nel resto d’Europa è vietato da tempo perché con il suo settanta per cento di alcol fonde i condotti polmonari. Ma non aveva pure proprietà allucinogene? Il dibattito è aperto da tempo, l’amica di Letizia, comunque, durante una buia e nebbiosa notte praghese vedeva strani colori…
Penso per un attimo alla vita grigia di un povero astemio. Forse si sono radunati, hanno fondato una setta e praticano in segreto il culto dell’acqua minerale. Ad ogni modo nel Mac Donald di Malà Strana si beve la Coca. Prima di proseguire questo itinerario senza mappa turistica mi infilo nel bagno. È a pagamento. Cinque corone per gustare gli effluvi di cacche scadute. Forse, vista l’efficienza generale degli altri bagni pubblici sparsi a Praga, bisogna versare l’obolo per sprofondare nelle atmosfere decadenti (e puzzolenti) delle vecchie latrine. Questo Mac Donald è meno omologato degli altri, se non altro per la puzza distintiva del cesso.
Attraversare il Ponte Carlo significa allagare lo sguardo nel paesaggio praghese, con la Moldava di sotto e il cielo sfuggente di sopra, le barchette che navigano nelle acque tranquille e le guglie gotiche e neo-gotiche che schizzano fuori dai palazzi. Senza il sole Praga sembra più vera, come se i raggi facessero scomparire i fantasmi, le streghe e i folletti che cogli invece se cammini su questo ponte in una fredda notte invernale, molto tardi, sotto il freddo pungente e le luci fioche. Allora sì, hai un bagliore della Praga magica celebrata da Angelo Maria Ripellino, quella popolata di suggestioni e leggende. Ma stavolta, in pieno pomeriggio estivo, non sfuggo alla massa di turisti che si fronteggiano nel mezzo del ponte, come due eserciti in guerra, procedendo in direzioni opposte, chi verso il Castello chi verso il centro. Mi siedo sul muretto, vicino a una di quelle statue che un turista nomina, seziona, archivia, con l’indice puntato sulla guida turistica. Una donna un p’ strabica sta suonando l’Ave Maria di Schubert, un’ atmosfera perfetta. Troppo perfetta. Infatti, insieme alle sinfonie di Mozart questa musica è diventata un santino musicale da cartolina, un segno di riconoscimento per tutti, come la faccia del Che. Arrivano due poliziotti e fanno un cenno scorbutico: nonostante i jeans, le gambe incrociate non sembrano cosa gradita, troppo vicine forse ai sit-in e alle anarchie; dopo averle liberate ecco uno dei due tornare indietro, non contento, sibilando qualcosa che, abbinato a quella faccia, suona ancora più minaccioso. Aleggia per un attimo il cipiglio dei vecchi autoritarismi, provocando uno strano disagio pre-crollo del Muro. Obbedisco subito, ho capito, sul muretto del ponte è vietato sedersi, in ogni posizione. I turisti continuano a galoppare a tutte le latitudini. La vera rivoluzione, adesso, l’hanno fatta loro, e non è di velluto ma d’amianto. Fotografano pezzi di lampioni e interi portoni. Io sono fotografata da un gruppo di coreani come rappresentante mitteleuropea. Perlustrano, dissodano, comprano. Nei dintorni di piazza Venceslao è pieno consumismo. Borse, scarpine e scarponi, occhiali da sole, vestiti francesi italiani americani, prodotti anti-cellulite, cellulari. Shopping center moderni, open space americani (sembrano gli uffici dove lavorava Neo in Matrix). I ragazzi praghesi sono vestiti come tutti i militanti del villaggio globale : ragazzine con l’ombelico di fuori e i jeans a vita bassa, un po’ Britney Spears un po’ Madonna, i ragazzi con il cappellino da baseball e i pantaloni dall’orlo infinito, come i Backstreet Boys. Naturalmente ci sono anche le versioni metal-rock. E pensi che in fondo i centri del globo sono tutti uguali, Praga come Londra, Roma,Tokyo, Berlino, Parigi.
Fra gli stranieri ci sono varie tipologie. Ecco i kafkiani, alla disperata ricerca di una Praga invisibile, non scomparsa ma rintanata in un altrove lontano dalla gente; si girano intorno vestiti di nero, come la tenuta di Gregor Samsa dopo la sua trasformazione, con gli occhialini tondi tondi e le facce senza sole. Altri viaggiatori solitari trascinano sulle spalle chitarre e violini. Immancabile tenuta S&S (socks & sandals) per gli americani, si spostano come sempre in gruppi di pellegrinaggio larghi quanto il loro paese. Italiani che strizzano l’occhio alle ragazze dell’est, francesi che guardano i menu esposti all’esterno dei ristoranti con aria perplessa. E tanti hippy. A Praga spopolano i negozi d’importazione orientale, a un certo punto per i profumi dolciastri sembra di essere proprio a Bombay. Incenso e pioggia battente, mentre l’ombrello non ripara più di un cerino. Appena ci si allontana dal centro si recuperano le atmosfere native, segnalate dall’assenza di inglese. Strade ampie, viuzze che sfociano in un parchi semi-deserti mentre la vita scorre nelle case e nelle birrerie. A cena con Letizia, Tomas e Petr scopro che qui vige una discriminazione turistica legalizzata. Prezzi differenziati negli alberghi e perfino in qualche museo, la tariffa “gonfiata” è autorizzata dallo Stato. E ti senti all’improvviso un coglione. Un coglione fortunato, comunque, a poter contare su gente del posto e dunque su un prezzo locale. Spesso si paga più del doppio, conferma lo sdegnato Tomas che ha scritto una lamentela indirizzata al museo Alfons Mucha, e che qualche tempo fa aveva lasciato con sommo imbarazzo un ristorante perché l’amico straniero avrebbe, appunto, pagato di più rispetto a lui, il privilegiato praghese. L’elaborazione del lutto per questa scoperta passa attraverso una birra, mentre la notte fredda pizzica sulla pelle. Ẻbello comunque sentirsi davvero a Praga, anche con le sue contraddizioni. La generazione a cavallo tra i trenta e i quarant’ anni è molto meno quadrata delle precedenti, tagliate un po’ con l’accetta; ha cavalcato i cambiamenti con l’ansia di un futuro ancora tutto da conquistare. Rimane, però, una rigidità tutta nordica che trascina chiusure, come quando Letizia e la sua amica Angela hanno comprato un pollo in una rosticceria chiedendo di dividerlo in due parti: dopo averlo tagliato, il ragazzo dietro il bancone ha detto che dovevano pagare venti corone in più, il prezzo dei polli speziati, divisibili e vendibili – quelli sì – in due parti. Questo pollo normale no, non era divisibile, come il bambino di Salomone, le due metà non potevano costare lo stesso prezzo del pollo intero. E vagli a spiegare che due parti esatte sono comunque uguali al tutto di cui sono figlie, non c’è stato niente da fare, hanno dovuto mangiarselo insieme, quel pollo, a casa di Angela. Insomma, i cechi a volte sanno essere davvero poco flessibili, eppure ti piacciono e non sai bene perché, forse proprio per la mescolanza di queste due anime, l’una militaresca e l’altra conviviale. A volte poi sono strambi sul serio, in bilico tra l’efficienza della modernità e il loro entropico menefreghismo. A Piazza Venceslao una serie di taxi aspetta Godot, sotto la pioggia. Ai turisti fradici di pioggia rispondono di non essere in servizio. Stanno lì, con il motore acceso e la faccia stralunata a fissare il vuoto, e manco un giornale da leggere. Anch’io mi affanno a cercarne uno, le scarpe ormai sono impraticabili, ma loro mi fanno zigzagare tra un’auto e l’altra, con le facce piatte come l’Adriatico in un giorno senza vento. Meno rassicuranti i pochi in servizio, devo andare al civico 3 di Kozacka, a dieci minuti da lì, neanche avessi nominato la Siberia; continuano a fare cenno di no, indicano unì altra macchina. Per fortuna in questa allampanata anarchia trovo finalmente chi mi porta a destinazione. Però a un certo punto l’uomo si ferma e mi chiede dov’è questa via. Grazie meglio scendere, quanto le devo? Spallucce alzate, dice fai tu. E che ne so? Mica c’ho un tassametro impresso sul lobo frontale, quello sul suo cruscotto segna un misterioso numero 2. Ore? Birre? Figli? Gli mollo duecento corone e proseguo a piedi nell’oceano di pioggia.
C’è qualcosa che negli ultimi anni colora le piazze del centro: la nuova immigrazione praghese. Marocchini e senegalesi che, insieme ai profughi albanesi, rumeni e ungheresi che non riescono ad approdare in Germania, approfittano del “caldo” turismo metropolitano per vendere biglietti e fare volantinaggio. Vere e proprie organizzazioni che assoldano clandestini e rifugiati politici. Praga è disseminata di ragazzi e ragazze che ti fermano per sponsorizzare il concerto di Mozart al Municipio o per segnalarti l’Internet Café più vicino (qui il sorridente popolo di internettiani è lo stesso che altrove). Molti di loro sono vestiti in costume d’epoca, come Mircea, rumeno, vent’anni, vestito da Mozart, che aspetta al varco i turisti per incassare poche corone. Almeno parla, si muove, è più fortunato del suo amico Dodie, impilato tutto il giorno nello stesso centimentro quadrato di marciapiede insieme al suo cartello a forma di freccia che indica il “Ristorante Marocchino”.
L’ultima sera praghese in un ristorante di periferia c’è una ragazza decomposta dall’alcol che sta lì, seduta al bancone, la camicia completamente slacciata mentre si sposta i capelli dal viso bruciandoli con la sigaretta che ha fra le dita. Barcolla sotto lo sguardo rassegnato del cameriere, evidentemente abituato alle sue incursioni notturne. Non ho mai visto nessuno ridotto così, fuori piove, ancora, e lei dentro così, da sola, con la testa appoggiata al bancone. Letizia la conosce di vista, è una sua vicina di casa, ha due figli piccoli e un paio di genitori strani. Quando rientriamo a casa dopo un ultimo giretto notturno, la troviamo buttata sulle scale dell’ingresso, sempre con la camicia slacciata. Sembra morta ma le zaffate d’alcol segnalano che il respiro procede. Così la portiamo a casa, impossibile lasciare un essere umano in queste condizioni. Mentre la mia amica le prepara il caffè Dana, così si chiama, le fa un mezzo sorriso sdentato. Poi si siedono per terra, in soggiorno. Parlano. Non capisco che dicono e le osservo dal divano, mi sento un po’ come uno degli angeli di Wenders perché non posso fare altro che osservare senza partecipare, da lontano, da una distanza segnata da quella lingua segreta. E penso che anche il cielo sopra Praga a volte è davvero triste, i cieli e le persone di tutto il mondo alla fine hanno gli stessi problemi. Dana trova infine il coraggio di tornare a casa ad affrontare i genitori, infuriati perché ha lasciato i figli da soli; il suo ragazzo è in prigione e quell’appartamentino è troppo stretto per contenere tutti gli attriti.
Il giorno seguente dall’aereo che si solleva guardo quel francobollo che si allontana. Praga mezza globalizzata e mezza bunkerata, a metà tra KGB e G8, tra Havel e Bush, tra rigori e anarchie, incerta sul bilico di una modernizzazione a volte più esibita che davvero sentita. Scorbutica, stralunata ma pure accogliente, a suo modo, quando le va, con i suoi pasticci fritti di pollo e patate e le spruzzate di pivo, rintanata nei locali fumosi, gomito a gomito e basta formalità, ora si beve e si ride. Preferisco i sud del mondo, ma le voglio bene.