Come ben sapete, ho viaggiato molto. Il che mi ha permesso di comprovare l’affermazione che il viaggio è più o meno illusorio, che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, che tutto è una sola cosa e sempre la stessa, eccetera, ma anche, paradossalmente, che è infondata la sfiducia di trovare sorprese e cose nuove: in realtà il mondo è inesauribile”.
Jorge Luis Borges
di Francesca Pacini
Il sogno di un viaggio in Africa. Tre ragazzi in fuga da un quotidiano deprimente che all’improvviso smettono di raccontarselo, di chiacchierarlo quasi come fosse un alibi per la posticipazione, un appuntamento indefinito nel territorio della chimera, trasformandolo invece in azione concreta, l’unica azione possibile: la partenza. Li abbiamo visti al cinema, nel L’ultimo bacio di Gabriele Muccino (film peraltro banale), ma li sentiamo parlare la sera, magari in un pub, durante una spruzzata di birra fra amici; in mezzo ai lamenti sulle miserie quotidiane c’è chi predica geografie più anarchiche e ardite, legate a civiltà remote. E forse le sentiamo ogni istante quelle voci impercettibili eppure persistenti, che formano ininterrotti monologhi che recitiamo come preghiere. Parole e pensieri in ordine sparso senza una liturgia organizzata. Già, perché quei ragazzi che invocano un altrove più appagante potremmo essere noi. L’altrove meglio del qui, il domani sognato meglio dell’adesso praticato. Mete privilegiate di questi sogni, l’Africa, il Sudamerica o l’Australia. Terre che respirano cieli più grandi, dove il sole rassicura lo scioglimento della tensione, dove la società è meno stretta e meno infeltrita, come un maglione nuovo da indossare, morbidissimo, finalmente della nostra taglia. Lì si può rompere l’asse Produzione-Consumo, il patto d’acciaio che strangola chi cerca una via salvifica dall’identificazione esclusiva con il lavoro, anelando a una società affrancata dall’equazione perversa produco=sono. Anzi, produco dunque sono, Cartesio nel terzo millennio. Eppure, l’urgenza dell’altrove non nasce certo oggi, i suoi semi sono antichi, anzi antichissimi, perché l’evoluzione stessa parte dal nomadismo, pur se con motivazioni differenti; allora, infatti, era la ricerca di un luogo adatto a garantire la sopravvivenza della specie, una strategia per non venire scartati dalla natura. Ma, a ben guardare, oggi come allora, sempre di sopravvivenza si tratta, solo che la sopravvivenza fisica è stata rimpiazzata dalla necessità di sopravvivenza per l’ “anima”. Ẻ questo che avvertono, infatti, i viaggiatori moderni, minacciati da meccanismi coercitivi che impongono l’obbedienza a tecnicismi e sovra-strutture… Ma l’altrove racchiude vari significati, può essere una cronica fuga dall’età adulta in cerca delle emozioni assolute dell’adolescenza, perdute poi nella banalità di un quotidiano prevedibile e dunque noioso. In questo caso l’altrove è allora sempre e comunque migliore, è la meta irraggiungibile - ma indistruttibile - dell’ “età lirica”, per dirla con Kundera, in cui il sogno dell’esotismo, della vita selvaggia, sublima l’ansia di fanciullezza di un Sé evidentemente ancora immaturo. In queste aree si muove il “turista da banane”, eloquentemente definito da George Simenon nel suo omonimo romanzo; l’uomo che scappa dai suoi conflitti inseguendo il Mito del paradiso perduto, dell’uomo selvaggio, e lo fa vagando magari a Thaiti, come il protagonista del libro, guidato dall’oasi di un facile ammutinamento della memoria a contatto con le palme, gli indigeni e, appunto, le banane. Ma è un canto delle Sirene in cui si arena chi, a differenza di Ulisse, scivola sulla brezza dell’illusione. Fuggire, fuggire via dal passato. Ma per questi vaporosi “turisti da banane” arriva con uno schianto la riproposizione di quegli stessi problemi da cui si illudevano di naufragare via. Se il gattopardesco “cambiare tutto per nulla cambiare” è una tentazione luciferina, è anche vero che quello che l’uomo trattiene, nasconde dentro, si manifesterà comunque all’esterno, attraverso infinite catene di coazioni a ripetere, in uno scenario diverso, è vero, si manifesterà sullo sfondo di un lido assolato e gente semi-vestita piuttosto che in mezzo a palazzi abitati da formichine affaccendate che puzzano di smog e di tensione . Ma quel tarlo interno, quella lacerazione sarà la stessa, esattamente.
“Holysmoke” di Jane Champion, film bellissimo, inquietante, ma poco apprezzato, uscito quasi in sordina, racconta di una turista (Kate Winslet) che alle banane, in questo caso, preferisce le spezie e il misticismo dell’India, e così approda nel gruppo di seguaci di un millantato santone, finalmente a distanza di sicurezza dal rischio di non sentirsi amata, accettata, dalle paure della sua insicurezza. C’è anche, però, chi utilizza il viaggio a vantaggio del proprio talento. Hemingway a Cuba, Gauguin a Thaiti, Chatwin in giro per il mondo... Ecco emergere un’altra differenza: se i primi due eleggono un luogo a dimora, lo scrittore inglese non trova invece pace, scisso tra l’andare e il tornare. “La casa è una perversione”, per lui, “un luogo dove appendere il cappello”, ma ci torna sempre, dopo un po’ il suo nomadismo intima la stabilità. Torna con i suoi “PAZZI, PAZZI occhi di un esploratore dell’ottocento”, senza aver trovato una terra in cui sostare a lungo. In questo caso, l’allontanamento dai conflitti dell’io -l’omosessualità, l’oscillazione tra il lusso e l’austerità, tra una vita barocca e una minimalista, tra l’avventura e la stabilità – si cristallizza nella produzione letteraria, crocevia catartico di euforie ad alto voltaggio e depressioni abissali. La sua inquietudine si annida, probabilmente, nell’eterno – ma geniale – fanciullo in corsa dietro una meta che non esiste, e che allora sposta orizzonti e confini, li raggiunge per demolirli, rimodellandoli in un continuo gioco di risonanze e contrasti. “Nostalgia dello spazio”, dell’altrove come intreccio di trame, di Vie dei Canti, appunto, più vicine alla fiaba, al Mito, che alla realtà. Per lui, un cervello grande serve a “trovare cantando la nostra strada attraverso il deserto”. Lo ha fatto, Chatwin, ha cantato una schiera di altrove lontani, li ha attraversati, narrati, fotografati. Come lui, anche se senza le sue abilità letterarie, molti altri nomadi vagano nel globo alla ricerca di una Camelot ideale, un luogo assoluto di Libertà e Giustizia. Ma il sacro Graal non si trova, la spada si arrugginisce. Ci sono poi quelli che fissano la loro esistenza in un luogo preciso, senza vagheggiare altri altrove. Rinunciano ai lussi del capitalismo per aprire un baretto sul litorale sudafricano, comprare una fattoria di cavalli in Messico, fare i bagnini in Australia…Alcuni di loro si alzano dal letto, il mattino, con un sorriso soddisfatto e la schiena dritta, altri, invece, hanno una faccia un po’ malinconica, e stanno curvi, le loro spalle disegnano un punto interrogativo in cui si affollano tutti i perché. Tornare a casa? Dove ho sbagliato? Mi manca sul serio l’aperitivo da Vanni? Era così triste la radiolinainvernale? Le macchine in fila ai semafori? Era…?
L’altrove non è un sentiero unico ma una strada con mille biforcazioni e, come in un labirinto borgesiano, queste possono dividersi per poi incrociarsi di nuovo trasformando la certezza in dubbio, la vittoria in sconfitta, la scelta in rimorso. Perché l’altrove è una trama percorsa da viaggiatori e vacanzieri, esploratori e fuggitivi, bambini confusi e uomini saldi (e qui non è l’età anagrafica ad attestare la differenza)
Insomma, l’andare e il fuggire. Andare è bello, diciamolo, restare spesso è difficile. Il “disagio della civiltà” indagato da Freud esiste, eccome, il conflitto fa parte della natura dell’uomo, ne indica limiti e potenzialità. Il “conosci te stesso” rimane l’unico strumento adeguato per scelte robuste, coerenti, serve a capire qual è la nostra frontiera, dove e se vogliamo andare, come scegliamo di vivere. Ci sono luoghi verso cui siamo attratti da un’affinità elettiva, mappe del mondo che ci corrispondono, e che forse rappresentano quell’aderenza che ci appartenga davvero. In questo caso, andare diventa un’ urgenza, un richiamo da non ignorare. Se invece si tratta di una via di fuga, una scorciatoia per non passare di fronte alla Realtà, l’irrequietezza non trova sollievo, anzi diventerà una ferita più aspra perché nel Paese delle Meraviglie Alice proprio non si ci trova. E adesso lo sa, lo sente nella pelle, mentre rabbrividisce davanti a quei selvaggi che non sono più attraenti ma arretrati, mentre annaspa su quelle spiagge diventate un deserto implacabile. C’è come un brivido di compiutezza che avvertiamo davanti a chi sa, a chi ha scelto davvero. Più che il luogo, comunque, conta l’unico viaggio che tutti, comunque, nomadi e stanziali, pellegrini o pantofolai, siamo costretti a percorrere; la ricerca della motivazione vera, del desiderio sincero che potrebbe poi condurre altrove oppure lì, nelle mura di casa, nella stanzetta che ci ha visto poppanti. La frontiera tra sogno e realtà sta nella mente, e finché siamo in mezzo al guado non potremo capire, né in sella a un cammello per un tè nel deserto, e neppure in ufficio fra carte e telefonate. A volte, poi, occorre saturarsi di una situazione per poi abolirla davvero, bisogna passarci attraverso, quasi annegando prima di approdare sull’altra sponda. Una sponda da cui raggiungiamo una capanna nascosta dai baobab, oppure prendiamo la metropolitana, solita tratta Ottaviano-Cinecittà. Quello che conta è sapere, senza illusioni. “Prima impari le regole, poi le infrangi”, cantava Jimi Hendrix. E aveva ragione. Lui la chitarra la suonava in maniera strepitosa, prima di sfasciarla.
Ecco che il viaggio diventa allora una sfida per l’approfondimento. Ci sono quelli che a Sharm El-Sheik si tuffano al Club Med perché lì c’è la succursale di Forte dei Marmi, mare-sole-palme-ristorante italiano, con gli stampi da cartolina, e quelli che invece decidono di arrampicarsi sul Sinai, niente guida, grazie, spero di perdermi. Viaggiatori e vacanzieri rimangono comunque due razze diverse, forse le uniche razze davvero diverse. Ma si può essere viaggiatori o vacanzieri anche senza spostarsi. "Non vivere su questa terra/come un inquilino” scriveva il poeta Nazim Hikmet a suo figlio Mehmet: il rischio, infatti, è quello di essere inquilini, a Città del Capo come a Voghera, di sottrarsi alla vita in ogni latitudine possibile, facendo di ogni parallelo un ozio, una negligenza. L’altrove è una ricerca che si rinnova ogni mattina, dovunque decidiamo di essere; l’unica insidia è la frequentazione distratta dell’esistenza. La ricerca dello straordinario a volte combacia davvero con la “tentazione di esistere”, che rischia così di non diventare mai un’esistenza concreta. Lo staordinario non è soltanto l’esotico, una duna mossa dal vento saudita o i colori pulsanti di un mercatino peruviano. E’ anche una sfumatura fiamminga nel tramonto di questa sera, una faccia che diventa un racconto nell’incrocio della via sotto casa. Lo straordinario, però, si manifesta nel quotidiano solo se si hanno occhi e orecchie allertate, allenate. Ci sono dunque viaggiatori avvertiti che ovunque, in questo preciso momento, stanno esplorando. Alcuni lontano, lontanissimo, altri nel palazzo di fronte. L’altrove è comunque nel loro centro. La loro India sta lì. Ed è gratis. Né charter né volo di linea.