Gezi Park: le storie della resistenza
Istanbul 2014
Il cielo sopra Taksim è grigio, in questo ultimo giorno dell’anno. La pioggia batte leggera. Somiglia al ticchettio delle lancette che avanzano verso la mezzanotte. Ma sono solo le due e mezzo del pomeriggio, e Istiklal è piena di gente, come sempre. Molti affrettano il passo per le ultime spese prima di festeggiare il capodanno.
Asli mi viene incontro sorridendo. È una giovane turca di trentacinque anni. Ha lavorato a lungo nel turismo e ora si occupa di “cake design”, un’arte pasticciera che, nel mondo, sta spopolando.
Asli è in prima fila, da maggio, nelle proteste contro il governo.
Ci sediamo in ristorante affacciato sulla piazza, all’aperto, per tenere sotto controllo la metropolitana. Il giorno prima le riprese di una videocamera che mostrava un giovane che aveva scavalcato l’entrata, ed era stato immediatamente fermato e picchiato in modo violento dalla sicurezza, erano state diffuse e condivise sul web. È stata indetta, di conseguenza, una protesta.
“Sono solo poche lire, alla fine. E nessuno merita di essere picchiato così. Non aveva i soldi per la metro”, mi dice Asli, turbata “Così oggi la gente manifesterà nella metro, saltando senza pagare, come lui. È un modo per dimostrare che la vita umana dovrebbe avere più valore”.
Di sicuro, basta nulla per accendere la miccia delle proteste, in questo periodo.
Io e Asli andremo insieme a vedere cosa succede.
Nel frattempo, voglio intervistarla sui fatti di Gezi Park. Il parco è lì, a poca distanza da noi, immerso nel rigore invernale. Accanto, come sempre, ci sono diversi cellulari della polizia.
Parliamo e mangiamo, tenendo d’occhio l’ingresso della metropolitana ai cui lati, infatti, si schierano presto due file di poliziotti, anche loro in attesa. I caschi in mano, osservano chi entra e chi esce.
Un dispiegamento spropositato, per quella che è solo una manifestazione pacifica che, tra l’altro, si terrà all’interno della metropolitana, non fuori.
La piazza è blindata. Nessuno deve manifestare a Taksim.
Lo sa bene Asli che, soltanto quattro giorni prima, il 27 dicembre, ha preso parte alla “chiamata” della piattaforma Taksim Solidarity, direttamente collegata ai fatti di Gezi, che ha indetto una protesta per gli ultimi scandali che hanno travolto il governo. Ma le centinaia di manifestanti non sono riusciti a raggiungere piazza Taksim perché subito i poliziotti hanno lanciato massicce quantità di lacrimogeni, cannoni ad acqua e pallottole di gomma (che hanno anche ferito una giornalista del Radikal, uno dei quotidiani più autorevoli in Turchia).
“Hanno agito con la stessa violenza dei giorni di Gezi”, mi dice Asli mentre pranziamo.
Lei non è neanche riuscita ad avvicinarsi. Subito ricacciata indietro dai gas lacrimogeni, ha trovato riparo in un locale. Gli scontri sono andati avanti tutta la notte fra barricate, inseguimenti e fughe, diversi arresti. Raccontano, alcuni testimoni, che il lancio di proiettili sulla folla di manifestanti sia iniziato ancora prima che qualcuno intonasse uno slogan di protesta. “Non potevamo neanche aprire la bocca, non abbiamo potuto neppure iniziare, hanno attaccato subito, senza neanche darci il tempo di radunarci”.
Ma Asli non mollerà. La guardo in faccia: i suoi occhi sono determinati, si accendono come fuochi mentre ripercorre, per me, i giorni di giugno.
Quando hai iniziato ad essere un attivista? Prima di Gezi Park?
“Ho iniziato quando sono stata grande abbastanza da leggere giornali e libri che si occupavano di politica. Credo fermamente che, come cittadini, dobbiamo sempre dire la nostra, e dobbiamo farlo a voce alta, quando qualcosa non va come dovrebbe. La mia prima protesta riguardava i diritti degli animali. C’era un cane di strada che viveva nel mio quartiere, all’epoca avevo solo dieci anni. Amavamo molto quel cane. Era una femmina. Le davamo da mangiare, ci giocavamo sempre. Ricordo che imploravo sempre mia madre di andare fuori a vederla. Una domenica sono uscita per darle da mangiare ma non l’ho più trovata. Se ne era andata. Più tardi abbiamo saputo che uno dei vicini, che aveva paura dei cani, si era lamentato con la municipalità. L’abbiamo cercata per due settimane, ma invano. Ho pianto per mesi. Poi mi sono organizzata con i miei amici. Eravamo in dodici, e abbiamo protestato contro la signora che si era lamentata. Abbiamo usato fotografie e slogan, in modo molto ingenuo, dicendo: “Dobbiamo amare gli animali, gli animali sono nostri amici!” Poi, con gli anni, sono stata impegnata in varie proteste, non solo per i diritti degli animali ma per i diritti dei lavoratori, per la libertà dalla censura di internet, ecc. Penso che la gente non debba avere paura del governo, sono i governi che dovrebbero invece temere i loro cittadini”.
Che cosa ti ha lasciato l’esperienza di Gezi?
Lei mi guarda fisso e, di nuovo, si accende la stessa scintilla.
“La speranza. Perché fino a quel momento eravamo solo un gruppo di persone che combattevano per far sentire la loro voce, provando a fare qualcosa per cambiare le cose. Ma poi, a Gezi, eravamo centinaia, migliaia, tutti riuniti a difendere l’unico spazio verde rimasto nell’area di Taksim.
Questo mi ha dato molta speranza. Era il libero arbitrio dei cittadini che manifestavano la loro volontà. Anche se i media censuravano la violenza della polizia contro i manifestanti, e nessuno dei canali (eccetto qualcuno) mostrava ciò che accadeva, i cittadini sono stati informati di tutto attraverso twitter e facebook, e moltissimi sono venuti al parco in supporto della protesta. Ero così sorpresa nel vedere tutta quella gente riunita per un solo scopo…È stato magnifico, e sono felice di essere stata così fortunata da farne parte.
Cosa è accaduto il giorno in cui la polizia ha sgomberato Gezi Park? C’erano anche i bambini, quei giorni, nel parco.
“La protesta è iniziata il 31 maggio e da quel giorno il numero di persone è incrementato progressivamente. La prima settimana i media tacevano. Quelli che mostravano gli eventi dicevano che si trattava di terroristi, di gruppi marginali che facevano casino a Taksim. Mentivano, ovviamente. I manifestanti erano gente normale. C’erano perfino anziani e bambini. La polizia attaccava ogni giorno. Taksim e Beşiktaş erano piene di persone che resistevano alla “dittatura” del governo e alla violenza della polizia. Pensavamo che fosse incredibile che la polizia attaccasse così duramente con gas e cannoni ad acqua. Io ero più abituata a questi usi perché in passato avevo partecipato a manifestazioni… Ma molti non erano consapevoli, fino a quel momento, di cosa il governo e la polizia fossero capaci di fare alla loro gente. C’è un giorno che non dimenticherò mai. Il 15 giugno Taksim e Gezi Park erano di nuovo molto affollate. Si tenevano alcuni laboratori con i bambini, che dipingevano. C’erano neonati, e gente in carrozzella… Eravamo nel parco quando abbiamo visto alcuni correre da piazza Taksim verso di noi. La gente urlava “Polizia! polizia!”. Hanno attaccato. Pochi minuti prima avevo visto una donna che aveva in braccio il suo bambino, mi ha detto che aveva paura che la polizia attaccasse. Le avevo risposto che non lo avrebbero fatto perché c’erano molti bimbi, l’avevo calmata. E invece l’hanno fatto. Quello è stato il giorno in cui hanno preso il parco, strappato e bruciato tutte le tende… Era chiaro che la polizia e il governo non avevano nessuna pietà per la loro gente.
Alcuni hotel vicino alla piazza hanno aiutato i manifestanti
“Gli hotel erano disperati durante le proteste di Gezi. Lo so, e mi dispiace. Le proteste venivano mostrate a tutto il mondo (anche se non le mostravano in Turchia!) e i turisti esitavano a venire a Istanbul. Gli hotel della zona hanno perso diverso introiti… Ma c’era il personale di un hotel che ha veramente aiutato i manifestanti. Il Divan Hotel, a Taksim. Sono stati così umani da capire che non era una questione di soldi, si trattava invece di aiutare le persone che avevano bisogno. Hanno fatto sì che il loro parcheggio diventasse il primo centro di aiuto. Hanno sempre fatto entrare le persone in fuga dal gas o dagli idranti. Sono stati incredibili. La polizia ha compiuto molti arresti illegali, durante Gezi. Ma quello che ha fatto il Divan è incredibile. Spero che abbiano recuperato le loro perdite economiche”.
La ascolto mentre ripercorre con la memoria le fughe dentro l’hotel, quando rivive la brutalità della polizia che forza l’ingresso, irrompe, lancia gas perfino all’interno.
Le domando dei diritti umani in Turchia, una faccenda che mi sta particolarmente a cuore.
Che succede quando la polizia ferma qualcuno? È vero che la legge antiterrorismo aiuta nel fermare chiunque, anche senza prove evidenti?
Sì. Poi ci sono anche i diritti dei bambini. Sai, ci sono ancora giovani ragazze forzate dai loro familiari a sposare uomini vecchi, per varie ragioni (a volte per denaro, a volte a causa delle loro tradizioni…) e il governo non fa nulla per prevenire, per punire. Qualche anno fa una ragazza di tredici anni, N.C., è stata molestata e violentata da ventiquattro uomini. Ci sono voluti quasi dieci anni per il processo e alla fine ai violentatori sono stati dati da cinque ai nove anni. I giudici hanno evitato loro il massimo della pena affermando che N.C., al momento della violenza, era consenziente! La vita di una ragazzina di tredici anni crolla sotto la violenza di un abuso, e dopo una decina di anni di attesa, ai violentatori vengono dai cinque ai nove anni… Poi dicono che i manifestanti sono violenti!”.
Mentre la ascolto penso che il problema della violenza sulle donne, purtroppo, non viene mai affrontato adeguatamente, neanche nel nostro paese. Pene troppo leggere, insabbiamenti, il tutto sempre con il rischio, come in questo caso, che la vittima debba subire una seconda violenza, di stato.
Asli prosegue: “Gli arresti illegali sono sempre stati uno dei problemi maggiori, in Turchia. Ci sono più di diciassettemila persone scomparse, prese in custodia dalla polizia e mai tornate a casa dal 1990! C’è un gruppo di madri che si fa chiamare Madri del sabato: si sono riunite di fronte al liceo di Galatasaray, ogni sabato, chiedendo risposte per i loro figli scomparsi. Hanno fatto così per più di quattrocentocinquantadue settimane. Hanno perso figli, mariti che sono stati presi dalla polizia e mai restituiti ai loro cari. Bisogna mettersi nei loro panni, sostenerle… Perché nessuno ti garantisce che un giorno non accada anche a te. Se rimani in silenzio davanti a queste ingiustizie, potrai non trovare nessuno che combatta per te quando sarai tu, ad aver bisogno di giustizia.
Durante Gezi un ventisettenne, Ethem Sarısülük,, è stato ucciso da un poliziotto, Ahmet Sahbaz. È ancora in servizio, lo hanno semplicemente trasferito a Urfa, una città dell’Est. Il poliziotto che usa un’arma contro un manifestante indifeso deve essere condannato. Sì, il governo protegge il suo ufficiale dicendo che si tratta di autodifesa.
Ali Ismail Korkmaz era un giovane attivista picchiato a morte da alcuni uomini, inclusi alcuni poliziotti in abiti civili. Ci sono video che mostrano tutto. Ma ancora non ci sono sviluppi. La sua famiglia attende che si faccia giustizia.
Anche Mehmet Ayvalıtaş era uno dei manifestanti. È morto dopo che un’auto ha investito la folla. Aveva solo diciannove anni. Il primo processo è stato a novembre. La gente si è riunita, chiedendo giustizia. La polizia ha di nuovo usato i gas lacrimogeni contro la sua famiglia, gli amici e le persone arrivate in supporto. Gli ufficiali hanno chiuso i cancelli lasciando fuori tutti, inclusi gli avvocati. Alla fine, c’è stato un rinvio a febbraio e i responsabili sono stati rilasciati. La corte ha liberato gli assassini e allo stesso tempo, però, ha considerato “armi” gli occhialetti da piscina, il Talcid (un prodotto a base di idrotalcite, che aiuta a combattere le infiammazioni dell’apparato gastro-intestinale, ndr) e le soluzioni a base di latte usate durante la resistenza per difendersi dall’uso massiccio di gas lacrimogeni. La madre di Mehmet, Fadime Ayvalıtaş, non ha resistito a tutto quel dolore, ed è morta di infarto il 13 dicembre.
Spesso la polizia ti prende per molti anni, e non sai neanche cosa hai fatto. C’è un esempio che non riesco a dimenticare. C’era un uomo d’affari chiamato Kuddusi Okkır. È finito in prigione perché è stato accusato di finanziare un’organizzazione clandestina, Ergenekon, ritenuta responsabile della pianificazione di un colpo di stato contro il governo. Lo hanno tenuto in prigione molto tempo, senza neanche spiegargli quali fossero le accuse contro di lui. Si è ammalato di cancro. Non ha ricevuto le cure adeguate. È stato riconsegnato alla sua famiglia solo pochi giorni prima della sua morte”.
Qual è la memoria più potente dei giorni di Gezi? Vorrei sapere che è rimasto dentro di te.
“Il modo in cui la gente ha legato. Era magnifico. Tutti si aiutavano gli uni con gli altri. Quando la polizia lanciava il gas c’erano persone che giravano con bottiglie di plastica e Talcid. Provavano a rimuovere gli effetti del gas. Era la prima volta che vedevo così tanta gente unita, insieme. Non lo dimenticherò mai”.
Non hai paura di partecipare alle proteste?
“No, non ho paura. Perché se ho paura, anche gli altri hanno paura… Chi protesterà, allora, e farà sentire la nostra voce? Anche prima di Gezi mi ero trovata nel mezzo di questi attacchi, e c’erano volte che mi spaventavo… Ma poi ho pensato: se non faccio questo, se non partecipo, chi lo farà?”
Che accadrà ora in Turchia? Gli ultimi scandali sono pericolosi per Erdoğan?
Spero lo siano. Ma credo che, alla fine, troverà il modo di venirne fuori. Purtroppo la maggior parte della popolazione non è molto informata. Erdoğan è ancora il capo del partito islamico e ci sono molti che credono in lui, che lo seguono. Devo essere onesta. Nel passato, quando i partiti principali che guidavano il paese non erano di derivazione islamica, le persone che avrebbero preferito una guida islamica hanno sofferto, anche loro. Per esempio, le studentesse buttate fuori dalle università perché indossavano il velo. Quelli erano i tempi in cui erano queste persone, a essere trattate come nemiche.
I seguaci di Atatürk sono stati veramente intolleranti nei confronti di chi preferiva un modello islamico. Erdoğan è stato il riscatto di queste persone che avevano subìto, a loro volta, questi atteggiamenti. Lo hanno visto come un eroe. È stato un grande vantaggio per l’AKP. Alcuni, anche adesso, lo vedono come un eroe, perfino un profeta. Credono a qualunque cosa dica. Scelgono di non vedere il resto.
Sia durante Gezi che davanti a questo scandalo Erdoğan ha incolpato alcune “organizzazioni” che non vogliono che la Turchia diventi una grande potenza.
Organizzazioni internazionali, lobbies. Molte persone hanno creduto a queste storie.
Nelle scarpe dei figli di alcuni ministri sono stati trovati milioni di dollari in contanti, ma Erdoğan ha detto che si trattava di una cospirazione delle lobby.
Malgrado l’ovvia evidenza della frode, la gente ci ha creduto.
In Turchia la maggior parte della popolazione religiosa è musulmana. Lo sono io stessa. Ma quando leggo che il vero Islam è onestà, vedo che questo non ha nulla a che vedere con ciò che il governo impone. Il vero Islam ti dice di essere onesto, di dividere ciò che possiedi. Mi è difficile credere che Erdoğan abbia davvero seguito le leggi islamiche diventando in undici anni uno dei premier più ricchi (non aveva nulla, prima) mentre i bambini soffrono e muoiono ancora di fame, in questo paese.”
Atatürk è un mito, di solito i turchi non vedono nessuna ombra in lui. E tu?
“Quando ero una studentessa ci veniva insegnato che Atatürk era il leader più grande, il fondatore della moderna repubblica turca. Lo ammiro per come ci ha condotto nella modernità. Ha voluto formare una repubblica indipendente. Ma anche lui aveva ombre, come qualunque essere umano. Non era perfetto. Alcune cose avrebbe potuto farle meglio. La Turchia dovrebbe diventare un paese capace di essere critico con se stesso, e verso il suo passato. Dovrebbe imparare dalle lezioni del passato. Dobbiamo smetterla con i tabù”.
Intanto, a piazza Taksim, la polizia continua a restare immobile, fuori alla metropolitana. Aspetta. Aspettiamo anche noi.
Cosa pensi della questione curda?
“Un altro tabù per la Turchia. Devo ammettere che i curdi per molti anni sono stati maltrattati, in questo paese. Sono stati obbligati a rinunciare alla loro identità. Personalmente, non credo in questa forma di razzismo. Siamo persone che vivono su una stessa terra, non importa quale sia la nostra identità. Potremmo essere musulmani, armeni, ebrei, curdi, turchi. Perché dovremmo darci dei nomi? Potremmo essere, semplicemente, cittadini turchi, con differenti background. La vita dei curdi è stata molto difficile. Loro vivono principalmente nel sud est della Turchia, la vita non è facile, là. Nevica quasi sei mesi all’anno, non ci sono buone scuole, lavoro. Soffrono. Sono stati obbligati a dire di essere turchi, non curdi. Alcuni di loro non parlano nemmeno il turco, ma non hanno il diritto di essere educati secondo le loro tradizioni e la loro lingua. Dovrebbero avere l’opportunità di lavorare e guadagnare e badare alle loro famiglie. Il 28 dicembre 2011 trentaquattro giovani del villaggio Gulyazı, nel sudest della Turchia, vicino al confine iracheno, sono stati uccisi durante un attacco militare. Erano giovani, facevano del commercio illegale perché non avevano scelta. Molti di loro non avevano nulla. Gli aereoplani F-16 hanno bombardato i civili. Trentaquattro morti. Venti di loro erano minorenni. Molti dei loro resti non sono stati trovati. È stato un massacro, compiuto dai militari. Il processo è terminato pochi giorni fa, senza conseguenze penali. La vita dei curdi, ancora adesso, non è facile in Turchia”.
Che cosa speri, per il futuro?
“Spero che un giorno avremo una vera democrazia. Spero che la Turchia diventi un paese in cui tutti sono rispettosi gli uni verso gli altri e verso i diritti di tutti. Spero che non ci saranno più famiglie ferite, non più abusi sugli animali,sui bambini. Forse sogno un paradiso in terra.”
Ma il paradiso in terra non c’è. C’è ancora un mondo pieno di ingiustizie, ovunque. Finiamo di mangiare e decidiamo di andare a vedere cosa succede dentro la metro. Mentre scendiamo le scale osservo i volti dei poliziotti che presidiano l’ingresso. Sono tirati. Forse anche loro sono stanchi, come Asli. Ognuno difende quello in cui crede, con i mezzi che ha. Certamente, l’uso della forza, qui, è stato davvero spropositato.
All’interno della metropolitana c’è un aria di attesa. Sono già le tre. La gente entra ed esce, c’è molta folla. E poi, eccoli, loro, i manifestanti. Arrivano con cartelli antigovernativi, intonano i loro slogan. Li seguiamo attraverso scale e corridoi, mentre i poliziotti in abiti civili comunicano, attraverso la radio, con quelli che si trovano lassù, a cielo aperto.
Non possono intervenire: c’è troppa gente. I manifestanti si radunano, protestano usando un megafono. Ci sono anche ragazzini. Tutti chiedono più giustizia. E condannano gli ultimi scandali che hanno coinvolto il governo. “Tayyp, istifa!”. Tayyp, dimettiti!” Di nuovo, come nei giorni della resistenza.
I passanti li guardano, affrettandosi verso l’uscita. Per un attimo temo che la polizia possa lanciare il gas qui, in questi sotterranei che diventerebbero una prigione impossibile. Quando, nei giorni di Gezi, hanno lanciato i gas lacrimogeni contro gli attivisti che si erano rifugiati nella metropolitana, questo spazio era diventato un inferno. Asli, quella volta, temeva davvero di non uscirne viva. Ma oggi ci sono troppe persone. Questo traffico umano si trasformerebbe in una scheggia impazzita.
Certo, sono furbi, i manifestanti: qui, in questo momento, non possono essere colpiti. E preferiscono una manifestazione sotterranea, all’ombra della proibita Taksim che da giugno è il simbolico oggetto di contesta tra le varie forme di protesta e il governo.
Quando io e Asli ci salutiamo ci lasciamo con la promessa che, la prossima volta, le pagherò io il pranzo. Già, perché al ristorante, con la scusa di dover andare in bagno, ha pagato lei. I turchi sono così. Hanno un incredibile, entusiasmante, affettuoso senso dell’ospitalità. Sono generosi, sempre. Tesekkür ederim. Grazie, Asli. A presto, alla prossima volta.