Giustizia è fatta
Una ragazza, in un parco. Indossa un abito rosso, leggero, come la giornata di primavera che sparge intorno i raggi di sole. Davanti a lei, un poliziotto le scarica addosso con violenza, a distanza ravvicinata, una dose massiccia di gas lacrimogeno mescolato con agenti irritanti.
Lei si gira per proteggersi mentre i capelli e il vestito si sollevano per la forza d’urto e l’uomo continua, continua ad attaccarla, non molla.
Il parco è quello di Gezi.
Il nome di questa ragazza è Ceyda Sungur, ed è una studentessa. Diventata famosa, suo malgrado, durante i giorni della resistenza. I fatti sono avvenuti il 28 maggio 2013.
E questa immagine, catturata da video e fotografie, è diventata una delle icone di Gezi Park
Foto e illustrazioni che ritraggono la scena sono comparse ovunque, l’hanno riprodotta, e moltiplicata. Sui manifesti, sui giornali, sui libri. Un’immagine che scosso, ed emozionato, un mondo intero.
Perché è una delle immagini che testimoniano, con molta eloquenza, gli abusi della polizia contro i cittadini inermi, disarmati.
L’unica arma di Ceyda era la sua voce, innalzata, insieme alle altre, in difesa del parco ma, soprattutto, in difesa dei principi della democrazia.
Contro la furia del poliziotto è rimasta lì, in piedi, senza armi, senza protezioni.
Il contrasto tra la sua figura femminile, con il vestito rosso che svolazza intorno alle gambe che, come le braccia, sono scoperte, e l’immagine del poliziotto armato, protetto da scudi, maschere antigas ed elmetto, ha fatto il giro del mondo rivelando, più di qualunque parola di denuncia, la brutalità di un attacco spropositato.
Ora, la “donna in rosso”, come è stata chiamata finché i giornalisti non hanno scoperto il suo nome, ha finalmente avuto giustizia.
L’agente (la stampa turca lo indica come F.Z. ) è stato riconosciuto colpevole di aver violato le regole per l’uso del gas durante i movimenti di protesta, avvicinandosi a meno di un metro e puntando dritto al volto della ragazza.
Né prima né dopo quell’attimo immortalato nella fotografia, Sugur ha mostrato alcun segno di ribellione.
La sua è stata una resistenza pacifica. E adesso, finalmente, quella resistenza pacifica le è stata riconosciuta.
Il poliziotto, ventitreenne, dovrà scontare tre anni di prigione, riporta l’agenzia stampa Doğan.
Per una volta, sembra che la polizia sia rimasta scoperta.
Quella foto rimarrà nella mente di molti come simbolo, come icona rappresentativa di una protesta in cui i cittadini hanno mostrato volti molto diversi da quelli dei “terroristi” evocati da Erdoğan.
Una riflessione si fa necessaria. Grazie al contributo dei presenti che hanno scattato foto, girato video, affiancando il lavoro del giornalismo tradizionale, è stato possibile mostrare una realtà che sconfessava le dichiarazioni governative. Sono state le fotografie di gente qualunque, spesso, a testimoniare gli eventi.
Sicuramente ci sono stati episodi violenti anche da parte di alcune frange di manifestanti.
La verità non è mai monolitica.
Ma questa immagine mostra, nel suo misto di crudezza e innocenza, la capacità di un popolo di sollevarsi senza usare le armi, senza ricorrere all’aggressione.
Quei giorni, a Gezi, hanno evidenziato il potere di migliaia di cittadini scesi in piazza disarmati ma uniti, estremamente uniti.
E, stavolta, chi sta dall’altra parte dovrà pagare.
Perché la legge del più forte non vince sempre. Non stavolta, almeno.