Nel 1949 John Haigh è condannato a morte per vari omicidi. Durante il processo, confessa di aver bevuto il sangue delle vittime. Una specie di Dracula o una variante del serial-killer? Un caso che ha appassionato e inquietato gli inglesi nel dopoguerra.
di Francesca Pacini
“Sarò impiccato domani. Passerò per la prima e l’ultima volta da quella porta della mia cella (ce ne sono due) che non ho mai visto aprirsi. L’altra serve per i secondini, quando vengono a farmi visita. Ma io so che è dalla seconda porta, quella sempre chiusa, che viene trascinato l’uomo destinato all’esecuzione”. La penna esita un attimo, si arresta sul foglio di carta. John Haigh fissa lo sguardo sulle sbarre della finestra: fuori, la notte londinese è quasi impercettibile, somiglia troppo al buio scrupoloso della prigione.
È il 9 Agosto del 1949. L’ultima veglia, per lui: morirà domani. La luce livida della candela scorta una scrittura meticolosa e tuttavia precisa. “Gli uomini mi hanno condannato perché avevano paura di me. Minacciavo la loro miserabilità, il loro ordine costituito”. Ecco, queste dichiarazioni sono, stasera, il suo congedo dal mondo. Si tratta di una confessione minuziosa quanto lucida, senza gli isterismi provocati dal maligno trascorrere di queste ore che lo separano dal termine della sua esistenza. E in questo breve tempo che resta, vuole raccontare agli altri, agli “innocenti”, come ha ucciso, e perché. Un documento in cui non c’è ombra di un rimorso tardivo. Ripensa alle sue vittime, nove, attirate in un laboratorio, uccise e dissolte nell’acido solforico. Prima, però, ne ha bevuto il sangue. Una prassi vampirica che lui, in queste pagine come prima, durante il processo, attribuisce a un sogno avuto nella pasqua del 1944. In quell’anno, durante un viaggio nel Sussex, la sua automobile si era scontrata con un camion sbucato all’improvviso da una strada laterale. Haigh, a terra, sanguinava con generosità, e quel gusto acre penetrava in bocca, mentre le labbra riconoscevano un sapore remoto eppure familiare. La notte seguente, sognò una foresta di crocifissi che diventavano alberi, mentre una pioggia singolare ne bagnava i rami. Quella pioggia era sangue. Si imprimeva sui tronchi da cui poi, lentamente, grondava. “Sangue filtrava dai tronchi. Sangue stillava dai rami, rosso e brillante”. All’improvviso, vide un uomo che andava di albero in albero, una coppa in mano gli serviva per raccogliere il liquido denso, vermiglio. All’improvviso, si avvicinò. “Bevi”, gli disse. “Ma io ero come paralizzato”. Al risveglio le sue mani si tendevano avidamente verso il recipiente immaginario. Questa immagine onirica anticiperà, come una sinistra profezia, ogni omicidio.
Adesso, prima di consegnarsi al patibolo, Haigh vuole ricordare ancora una volta quei rituali raccapriccianti, frutto di una perversione criminale che definisce “forza divina”. Ripensa ai cadaveri numero 6 e 7, come lui stesso li chiama. Nessun bagliore emotivo, infatti, turba la memoria nella rievocazione degli omicidi. Archie e Rose Henderson, così si chiamavano. I due patirono candidamente i raggiri di Haigh: quei giorni si trovavano a Brighton, all’Hotel Metropole. “Bisognava che Archie fosse la prossima vittima. Con un pretesto qualsiasi lo feci venire da Brighton a Crawley, nel mio laboratorio di Leopold Road, e gli tirai una pallottola in testa con il revolver di sua proprietà di cui l’avevo derubato durante una serata trascorsa in casa sua. Tornai a Brighton e dissi a Rose ‘Archie si è sentito male a casa mia. Nulla di grave, ma vorrebbe che lei venisse a prenderlo. Venga con me’. Mi seguì subito, senza alcun sospetto. Appena entrò nel laboratorio l’ammazzai. Come, non ricordo. Succhiai una buona parte del sangue di Archie e di Rose. Mi sentivo protetto da una mano invisibile...” Una mano divina? Haigh era stato educato presso i Fratelli di Plymouth, una congrega ben più moralista della già intransigente Chiesa D’Inghilterra. E, probabilmente, alcuni estremismi liturgici avevano alimentato quel sogno fatale. Pure, la sua fede si era incrinata, precisamente durante i bombardamenti tedeschi sull’Inghilterra, nel ‘40, in cui si compiva, secondo lui, l’abbandono di un Dio premuroso e franco. Almeno, così pensò quando l’infermiera che gli era accanto in un posto di guardia fu colpita dalle schegge dell’ennesima bomba.
La sua testa decapitata rotolò proprio davanti ai piedi di Haigh, che estingueva così i suoi fervori religiosi per sostituirli con la mistica del sangue, una sorta di vocazione definitiva, immutabile, a cui ha sempre attribuito una valenza quasi passionale. Non c’è più Dio, dunque, ma “una forza superiore che ci spinge ad agire, e dirige misteriosamente il nostro destino, ignara del bene e del male”. In queste ore preziose il “vampiro di Londra”, come la stampa l’ha ribattezzato, concentra penna e parole sui dettagli dei suoi rituali, i cui gesti sono descritti con una sorta di beffardo compiacimento, forse immaginando lo sgomento nei volti di futuri, riluttanti lettori. Magari, chissà, davanti all’idea della maschera a gas per scongiurare il fetore dei corpi in declino: “La maschera, come ho già spiegato, doveva servire a evitarmi la nausea ver le emanazioni di acido solforico che salivano dalla mia ‘miscela’”. Sì, ricorda perfettamente, Archie era stato dissolto un venerdì. “E il sabato pomeriggio il corpo che in vita aveva costituito il principale fascino di Rose Henderson, fuse nell’acido come una bambola di cera al calore. La sua forma e il suo colore sparirono lentamente, giganteschi pezzi di zucchero che io rigiravo con un bastone, a lungo, pazientemente, serenamente...”. E che noia, durante il processo, ascoltare tutti i particolari morbosi che alcuni testimoni aggiungevano alla sua storia. Ma infine, con queste pagine, dissiperà ogni equivoco. Pensa sempre a un versetto dell’Ecclesiaste: “Ciò che è stato fatto, doveva essere fatto”. Lo hanno scoperto proprio quando stava studiando un’invenzione per impedire che eventuali fuoriuscite di gas dall’appartamento-laboratorio uccidessero chi abitava vicino. “È stata interrotta quest’opera di salute pubblica per preservare forse quelle tre o quattro persone trascurabili che io avrei potuto ancora far sparirei”.
Tuttavia, il caso di Haigh non è certo il primo. Le cronache della “sindrome vampirica” annoverano episodi sconcertanti. Nel 1872, Vincenzo Verzeni, dopo aver strangolato l’ultima vittima, una quattordicenne, confessa: “Bevendo il sangue della Motta provai una voluttà smisurata”. Ancora, nel 1903, Fitz Haarman, “il vampiro di Hannover”, uccide più di cinquanta persone invitandole in una casa al numero 27 di Cellarstrasse, dove le fa ubriacare per poi finirle a morsi. Talvolta si concede anche uno stupro. Il suo funesto discepolo, Peter Kürten, nel 1913 commette il suo primo omicidio lavandosi col sangue della vittima, una bimba di dodici anni. Ma, attenzione: spesso il vampirismo è una variante del serial killer come osserva Introvigne nel suo libro “La stirpe di Dracula”, sconcertante ma pure suggestiva ricognizione sul tema. Infatti, occorre distinguere tra le perversioni a sfondo necrofilo-cannibalista, dove questa prassi diventa un sintomo collaterale, una specie di macabro supplemento a riti di impronta sadica e macellaia, e, appunto, i vampiri “istituzionali”, quelli che si limitano a “succhiare” il sangue. La letteratura medica, comunque, riporta numerosi casi di disturbi mentali dove i pazienti approdano all’eccitazione sessuale attingendo dalle proprie vene (“autovampirismo”). Un giovane, ad esempio, si masturba “aprendo una vena nel braccio e guardando il sangue che ne esce”. Lo conserva, inoltre, dentro alcune bottiglie: una scorta ematica per l’occorrenza. In seguito, affina la sua tecnica riuscendo a bere direttamente da un’arteria. Più che di un vero vampirismo si tratta dunque di un disturbo psichico legato al sangue come matrice di pulsioni erotiche.
Del resto, è anche vero che con il termine “vampirismo” si indicano ormai molte devianze che implicano la morte e il sangue. Il vampiro “autentico” assorbe il plasma ematico, dunque la linfa vitale, per aspirare all’immortalità, ed è soprattutto un non-morto, mentre i viventi che praticano questo culto sinistro sono spesso criminali o psicotici. Lo stesso Haigh è preda di deliri onirici sostenuti da un’archittettura incoscia densa di ombre irrisolte. Come la diserzione di Dio nonostante le sue reiterate preghiere. Tuttavia, se il sangue è “un succo molto particolare”, come sussurra Mefistofele al Faust goethiano, c’è chi lo utilizza per assicurarsi un nuovo vigore. In Svizzera esiste una clinica dove facoltosi ottuagenari si sottopongono a trasfusioni di plasma estratto da vene arzille, fresche. E gli esiti, si mormora, sono prodigiosi. Certo, il successo letterario e cinematografico di cui si nutre il mito del vampiro (da Nosferatu al recente ‘Intervista col vampiro” per non citare il celeberrimo romanzo di Bram Stoker) favorisce, talvolta, anche un macabro folclore. Nel Kentucky, un gruppo di adolescenti fonda il Vampire Clan: i figliocci di Dracula fanno a pezzi piccoli animali e poi si “dissetano” con il loro sangue. A Brockton, nel Massachussets, il ventiquattrenne James Riva massacra la nonna, istigato, sostiene, da vampiri notturni che frequentano la sua stanza. “Devi berne il sangue”, ordinano le voci. Lui, però, si sottrae all’intimazione: “Era vecchia e tutta rugosa”, dichiara flemmatico. A New York, il sedicenne Salvatore Agron vaga per le strade, di notte, travestito da Bela Lugosi (l’attore che, sullo schermo, incarnò più volte il conte della Pennsylvania) nella convinzione di incarnare un vampiro: viene condannato a morte nel 1959 per svariati omicidi.
Anche John Haigh, mentre attende di essere giustiziato, è sicuro che i suoi crimini siano frutto di una pur imprecisata missione: “Dalla porta della mia cella ci vogliono appena quindici passi per raggiungere il patibolo. Sono pochi per raggiungere l’eternità... Non è possibile, i miei nove delitti devono avere la spiegazione in qualche luogo che esula dal mondo terreno...”. Fuori, intanto, i lampioni delle strade si spengono lentamente per cedere il passo ad altre luci. Ma è un’alba estrema, per lui. Qualcuno, infatti, sta preparando la forca.
Da “Storie”, n. 29, novembre ’97 – febbraio ’98, a. VIII, pp. 31-34