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Di chi è questo film (Storie n. 22-23, 1996)

Di chi è questo film (Storie n. 22-23, 1996)

Parliamo di “È simpatico ma gli romperei il muso”, opera felice (dall’infelice titolo italiano) del raffinato cineasta francese. La storia sottile e lacerante di un triangolo sentimentale che offre lo spunto per capire a chi appartenga questo o qualsiasi film. La varietà di interpretazioni di cui è vittima un’invenzione pubblica (libri, film, dischi, etc.) e, in questo caso, un discusso, enigmatico finale nel quale sono intervenuti in molti. Non soltanto l’autore...

di Francesca Pacini

David è tornato. Irrequieto, artista colto ma pure ironico, ora disegna fumetti umoristici, si è stabilito di nuovo a Parigi e soprattutto vuole rivedere Rosalie, la sua antica compagna. David e Rosalie. Un amore incompiuto, sospeso da una partenza che forse è anche una fuga da una situazione circoscritta, dunque minacciosa. Lei è una donna cresciuta fra le etichette di una borghesia compiaciuta, che del ‘68, da poco trascorso, fa un vessillo da sbandierare solo in salotto.

È bella, Rosalie, e porta rigore e dolcezza. Ha un’intelligenza aristocratica ma cede, incontrollata, di fronte al sentimento. Il dolore provocato dall’abbandono di David si è placato grazie all’incontro con un altro uomo, César. L’ha sposato. Se David è cerebrale (come lei, del resto), César è viscerale. Ruvido e goffo, ai giochi dell’intelletto preferisce un pragmatismo economico ma anche esistenziale. Le sue giornate sono gli appuntamenti d’affari di una carriera brillante. Non è erudito, César, come Rosalie e la sua brigata di amici; divide infatti il suo tempo libero fra soste al bar e partite di poker. Il denaro che (infantile) esibisce sembra il rimedio per smaltire l’insicurezza intellettuale. I vocalizzi di una sonata di Bach (l’unica che ha appositamente studiato) gorgheggiati ripetutamente durante le feste riscattano (così spera lui) le lacune culturali. In realtà, è un uomo fragile, fatto di una purezza sentimentale quasi primitiva. In César le emozioni si manifestano con una generosità così innocente che finiscono per compensare le bugie acerbe e un bambinesco fervore. Alle astrazioni del carattere di Rosalie fa dunque da contrappunto la sua solida schematicità, basata su una visione semplice ma anche manichea del mondo. Eppure, César è una certezza, una figura che somma permanenza e devozione, appagamento e fiducia. Sono questi i tre personaggi su cui Claude Sautet costruisce “È simpatico, ma gli romperei il muso” (“César e Rosalie”, il titolo originale), un film del 1972 scritto in collaborazione con Jean-Loup Dabadie, complice indimenticato di un sodalizio artistico interrotto nel 1976 con “Mado”, peraltro inspiegabilmente mai uscito in Italia.

Il regista francese inaugura con questa opera la sua personalissima ricognizione sui triangoli sentimentali, sulle sfaccettature degli affetti, un terreno già setacciato da Truffaut nel memorabile “Jules e Jim” (ancora due uomini si contendono l’amore per una donna) ma che qui assume toni meno drammatici, privi dei risvolti estremi di un romanticismo totalizzante. La comparsa imprevista di David altera il rapporto di César e Rosalie, evocando la memoria remota ma non perduta di un sentimento ansioso, irrisolto. Inizia così una competizione fra i due: l’impeto di César si scontra con la resistenza flemmatica di David, che Rosalie fra l’altro desidera ma sfugge, invoca ma discute. L’eterno dilemma, quello della scelta, suggerisce alla donna un nomadismo inquieto (ora resiste al fianco di César, ora capitola davanti al fascino furtivo di David) in cui i legami si mescolano, confondendosi, in un gioco incessante di separazioni e raddoppiamenti. Una dottrina dell’ambiguità le cui contraddizioni annunciano la decisione univoca, risolutiva, che sembra imporre la presenza contemporanea dei tre per la sublimazione del sentimento. Rosalie mente, a David come a César, e allo stesso tempo è sorprendentemente sincera con tutti e due: confida a uno la nostalgia per l’altro con una rassegnazione serena che in realtà conduce all’unica soluzione possibile: la convivenza dei tre. E così la misura di David finisce per legarsi al calore di César improvvisando una strana amicizia, punteggiata di gesti premurosi e rinunce. Anzi, ai due è comune una sottile quanto fastidiosa connivenza maschilista che Rosalie diluisce poco a poco con la sua rivendicazione di libertà. Un’urgenza che si risolve con un congedo immediato, muto, e dunque forse definitivo.

Sautet sorprende lo spettatore tracciando cornici domestiche in cui l’amore e l’amicizia acquistano significati corali, scanditi dai respiri emotivi in bilico tra ammissione e confutazione. E si palesano i tradimenti che conducono l’uomo a smentire sé stesso: David, ad esempio, si professa amico di César, ed è vero, ma quando quest’ultimo li lascia soli trascorre la notte con sua moglie. Entrambi, però, vogliono anche proteggerlo. Rosalie, smarrita, parte. David vive mentre César sopravvive. L’amicizia fra i due si consolida, e nella scena finale li vediamo entrambi nella casa di César. All’improvviso, lei compare davanti al cancello. Sbigottiti, dalla finestra la osservano mentre avanza verso di loro. Lei sorride. Titoli di coda. Fine. Un epilogo che lascia un’impressione di ambiguità: lo spettatore pensa che abbia scelto il marito (non è forse sua l’abitazione? E in fondo, è lui ad aver più bisogno di Rosalie), ma forse resterà per tutti e due.
Ebbene, sulla conclusione grava un mistero minuscolo ma significativo, citato nel bel libretto “Claude Sautet”, curato da Pedullà ed edito da Script-Leuto.

In occasione della presentazione del film, alla stampa è consegnato il materiale illustrativo che contempla anche un riassunto redatto in prima persona. Il narratore è David: “Eravamo insieme, César e io, nella sua nuova casa, e qualcuno di colpo ha spinto il cancello. Lei è entrata. Ha poggiato la valigia. Lui, il chiacchierone, non poteva spiccicare nemmeno una parola. Eccola che tornava da lui per la prima volta nella sua vita, proprio ora che per la prima colta aveva perso la speranza... La guardava. E Rosalie, seduta sulla valigia, guardava in casa dove stava per trasferirsi a vivere. Sono contento, ma avrei dovuto capirlo sin dall’inizio: la storia si chiama César e Rosalie. Nient’altro, nessun altro”. Dunque un finale chiuso. Ma chi scrive quel testo? Sautet e Dabadie? Oppure la produzione, contraria a un epilogo incerto, scomodo, che adombra la reiterazione del trio? Eppure anni dopo, in un’intervista, lo stesso regista ipotizza una possibile apertura. Nell’edizione italiana, inoltre, è stata inserita arbitrariamente la voce fuori campo di David che, all’approssimarsi di Rosalie, esclama: “È tornata per te, César!”. Una precisazione falsa ma rassicurante, forse necessaria per un paese pervaso da un cattolicesimo che intima rapporti dogmatici, già stabiliti e collaudati da altri, e che esigono una devozione quasi liturgica. Una circostanza, quindi, frutto dei sospetto etico che ha viziato, come presumiamo, la versione nostrana del film. Comunque sia, la voce del doppiatore “mente”. Ebbene, in un’altra opera cinematografica la coincidenza tra doppiatore e bugiardo è invece marcata volutamente, ispirata da un intuizione brillante. E anche molto sottile. Si tratta di “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, del 1988, commedia degli equivoci in cui l’indisciplinato Almòdovar traccia una caricatura farsesca ma non immaginaria della società spagnola le cui ipocrisie degenerano in paradossi spesso drammatici. Pepa è abbandonata da Ivan e lo insegue attraverso fughe rocambolesche per poi scoprire che, a sua insaputa, lui conduce una tresca collaterale. Guarda caso, Ivan fa il doppiatore. Quindi mente in quanto ruba, falsificandola, una voce esistente per sostituirla con la sua, ma tale finzione professionale diventa anche bugia del quotidiano, arte dell’inganno perpetrato dal doppio che, in un film come nella realtà, diventa esecutore del tradimento. Una teoria sintetizzata all’inizio con un primo piano delle labbra di Ivan, in sala di registrazione, su cui la telecamera insiste con eloquenza. Come ad introdurre le implicazioni subdole della sovrapposizione.
Sautet non accetta, comunque, i moralismi borghesi. Il suo è un film “progressista”, configurato attraverso dialoghi e situazioni mai scandalizzate. Senza faziosità di convenzione. La complessità dei sentimenti è misurata dalle lacerazioni dei personaggi: “Dopo aver esordito con due film molto fisici, – avverte infatti Sautet – sono approdato a un cinema interiore che economizza le peripezie esteriori e privilegia l’incertezza dei rapporti sociali e affettivi”. Indispensabile, alla luce di questo progetto, l’interpretazione degli attori. Che in questo caso è superba: Yves Montand offre il suo talento assoluto a César, mentre David è tratteggiato da un convincente Sami Frei. Romy Schneider, artista “raggiante e straziata” (come ha detto Sautet) esalta invece gli affanni di Rosalie. Regista scrupoloso, maestro di atmosfere sofisticate, rarefatte, Sautet predilige la sottrazione: insinua ma non ostenta, suggerisce ma non definisce. I suoi lavori sono squisitamente francesi: dialoghi intelligenti in cui s’avverte la psicologia dei personaggi. Di lui si cita spesso 1’incedere algido delle sequenze, specialmente negli ultimi suoi due film, ovvero “Un cuore in inverno” e “Nelly e Mr. Arnaud”, entrambi rappresentazione di solitudini e privazioni. Ma se David anticipa in qualche modo il malinconico e scoraggiante Stephan/Daniel Auteil, come pure le misoginie di Mr. Arnaud/Michel Serrault, César riassume invece umori mediterranei. Peraltro mai folkloristici. Non è un uomo che osserva il mondo senza contaminarsi, anzi, si getta sulle situazioni sperimentando tutti gli accordi dolenti della realtà.
“È simpatico, ma gli romperei il muso” è anche un saggio sull’educazione sentimentale: ciascuno dei personaggi imparerà a crescere, ad accettare, manifestando progressivi cenni di maturazione. Sautet ci insegna la mobilità degli affetti, è quasi un teologo laico dei rapporti umani, che di storie minimaliste fa lo spunto per riflessioni intense, di impronta sociologica. L’eleganza dei dialoghi, l’efficacia della fotografia, il ritmo cadenzato dalle allusioni del non-detto attraverso cui si evolvono le situazioni, stimolano la stessa suggestione provocata dall’ascolto di un brano classico d’inizio secolo.
Appassionato di musica (è stato corista e suonatore di jazz), Sautet compone i suoi film come un’architettura sinfonica, in cui alle variazioni delle note si sostituiscono gli scatti emotivi. E questa è una fragilissima ma istruttiva arte della sintesi.

Da “Storie”, n. 22-23, 1996, a. V, pp. 57-60

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