Istanbul 2014
Istanbul scende di nuovo in piazza. In piazza Taksim, ovviamente. Sabato 8 febbraio centinaia di manifestanti si sono radunati per protestare contro l’approvazione delle nuove leggi, volute dall’AKP, di controllo e censura del web.
Sono scesi in piazza e, come al solito, la polizia ha reagito in modo eccessivo ricorrendo all’uso di cannoni ad acqua, gas lacrimogeni, pallottole di gomma. Insomma, il solito copione. Chi, la scorsa estate, ha partecipato più volte alle proteste in piazza Taksim lo conosce con esattezza: dispersione dei manifestanti non appena i primi gruppetti provano ad avvicinarsi alla piazza, lancio di gas contro la folla, inseguimento nelle stradine laterali che circondano Istiklal Caddesi, costruzione di barricate per fermare i blindati della polizia, uso della violenza contro cittadini inermi.
E via così, fino al mattino, fino all’alba.
Anche stavolta, come in alcune recenti occasioni, l’adunata è stata promossa anche dalla Piattaforma della solidarietà di Taksim, con buona pace di chi, questi mesi, pensava che il movimento di Gezi Park fosse finito.
Gezi non è finito. Gezi osserva, Gezi aspetta, Gezi si organizza e scende in piazza, quando necessario. Gezi non vuole che le cose scorrano via nell’indifferenza, come invece è accaduto, troppo spesso, nel nostro paese.
Perché il movimento di Gezi è, semplicemente, lo spazio di un’idea che raduna tutti i cittadini che riconoscono il diritto di non subire passivamente imposizioni e controlli, che vogliono dire la loro, vogliono replicare.
In piazza sono arrivate le opposizioni, i sindacati, le associazioni varie e i semplici cittadini, stanchi della crescente deriva autoritaria che tende a eliminare il dissenso.
E il dissenso, per quanto riguarda il web, è dinamite pronta a esplodere, a incendiare gli animi.
Internet è un mezzo per la difesa della libertà in un paese in cui chi la pensa diversamente deve confrontarsi con il rischio di essere licenziato (come è accaduto a diversi giornalisti anche nei giorni di Gezi Park), messo a tacere, imprigionato.
Non a caso alcuni attivisti, durante le interviste, mi chiedono di usare un nome di fantasia. Il governo li cerca, li controlla, soffia il suo fiato pesante sul loro collo. Ne chiede la testa.
E io penso a come ci si deve sentire nel temere la semplice espressione di un’idea.
Da sempre, comunque, la Turchia non è “amica” del web, come dimostrano i controlli esercitati finora che hanno coinvolto diversi siti e portali, fino ad arrivare anche a Youtube.
Ma, ora, la legge approvata in parlamento restringe ulteriormente, e in modo pesante, la già limitata libertà rispetto all’uso di internet. Il governo infatti potrà bloccare gli accessi ai siti senza ricorrere all’autorizzazione della magistratura. Si tratta solo di una tutela contro la pedofilia sul web l’incitazione all’odio razziale e religioso, sostiene il governo, affermando di agire per il bene dei cittadini. Internet ancora più libero e sicuro, dunque: questa, la fantasiosa difesa di Erdoğan. Difficile, per molti, credergli. Perché ricorrere a nuove, ulteriori leggi per regolamentare l’uso del web? Forse perché Gezi Park ha dimostrato la forza di internet nel contrastare il potere aggirando gli ostacoli dell’informazione tradizionale. Forse perché la tangentopoli turca rischia di rivelare nuovi scheletri negli armadi. Forse perché fra poco si vota.
Non nasce oggi, come dicevamo, la pressione governativa su internet. Google da tempo considera la Turchia come uno dei paesi più restrittivi del pianeta, al pari della Cina.
Nel 2007, a causa di un video che offendeva Atatürk, l’intero accesso a Youtube è stato completamente bloccato, nonostante il video fosse stato ritirato.
Nell’estate del 2010 il blocco su Youtube è stato esteso a diversi indirizzi ip che fornivano servizi a Google, fra cui Google Translate, Google Analytics, Google Books (nell’ottobre del 2010, alla fine, il blocco all’accesso su Youtube è stato finalmente ritirato).
Negli anni, sono migliaia i siti bloccati.
Insomma, il controllo di internet non è cosa nuova. L’opera di moralizzazione del web (e non solo) voluta dal premier diventa facilmente azione repressiva. Ma, a quanto pare, l’Islam per Erdoğan sembra un pretesto: la “moralizzazione” si trasforma così in mascheramento del potere, protezione dei propri interessi. Non a caso dopo Gezi Park e dopo gli scandali della Tangentopoli turca, si arriva a una nuova legge che garantisce un controllo del web ancora più facile, senza bisogno di dover ricorrere a permessi e autorizzazioni dei giudici. Il governo, attraverso il Tib, l’Authority per le Telecomunicazioni e Trasmissioni, potrà oscurare i siti e le pagine web giudicate “calunniose”.
Ma dove finisce una calunnia e dove inizia invece una controllo indiscriminato, una censura senza precedenti? La nuova Unione dei provider, controllata dal ministero delle telecomunicazioni, terrà una banca dati in cui, per due anni, rimarranno registrate e rintracciabili le pagine visitate da tutti i turchi, anche in assenza di procedimenti giudiziari. Su richiesta del Tib, i gestori forniranno l’accesso ai dati in modo da risalire alle pagine a cui hanno avuto accesso dai naviganti.
Ecco che allora ogni cittadino è seguito e monitorato con sfacciata evidenza.
Ma non sono stupidi, i cittadini. Capiscono benissimo l’intento reale di un governo che si fa sempre più repressivo.
Negli ultimi giorni, la notizia di una telefonata di Erdoğan a una rete televisiva che nei giorni di Gezi aveva fornito notizie “sgradite” al premier, non fa che confermare la sua crescente avversione verso chi la pensa diversamente. “Dovete togliere quella notizia, subito”, dice il premier nella registrazione.
Togliere le notizie, punire i giornalisti dissidenti, controllare i cittadini, imbavagliare il web.
La già fragile democrazia turca rischia così di diventare ostaggio di nuove, pericolose restrizioni che condizioneranno la vita di milioni di cittadini.
Quei cittadini che adesso nei social condividono la foto del viso di Erdoğan sul quale spuntano due baffetti sinistri, accanto alla scritta: Diktatör, Dittatore.
O che scrivono, ironicamente: “Yes, we ban”.
I giornalisti criticano l’ennesima restrizione alla libertà di informare. In un paese che ha il maggior numero di cronisti in carcere, dopo la Cina, questo ennesimo assalto alla democrazia ha davvero il sapore di una censura volta insabbiare e coprire gli scandali e contrastare - con sempre maggiore intensità - le voci del dissenso, in vista delle elezioni amministrative di marzo.
E intanto, l’Europa sta a guardare.
Non sappiamo cosa succederà. Ma sappiamo che ciò che accade in Turchia ci riguarda, riguarda noi tutti. E non solo perché la Turchia ha chiesto di entrare nell’Unione Europea. Ci riguarda perché ogni luogo, vicino o lontano, in cui i diritti sono violati, rappresenta una sconfitta anche per tutti.
Di certo, la popolazione turca merita tutta la nostra solidarietà.
C’è chi si batte, come ha fatto sabato scorso, per i suoi diritti.
E che per battersi respira tonnellate di gas lacrimogeno, fugge dai manganelli, viene picchiato e rischia l’arresto, mettendo in gioco anche il posto di lavoro.
La Turchia vive un momento cruciale, e chi, come me, ama moltissimo questo paese, aspetta con il fiato sospeso.
E, nel frattempo, cerca di raccontare.