Di solito si parte per raggiungere una meta. Qualche volta, però, la meta coincide con il viaggio stesso. Parliamo di “Sentieri nel ghiaccio”. E il diario di una marcia sofferta ma non discussa, da Monaco a Parigi, per raggiungere, e forse salvare, un’amica malata. Ma soprattutto il cineasta tedesco scopre in questo tragitto il ritmo giusto per osservare una realtà spesso lancinante. Proprio come quella che racconta nei suoi film...
di Francesca Pacini
Parigi, 1974. Lotte sta morendo. È malata, forse è incurabile. Werner,avvisato a Monaco con una telefonata, decide di partire a piedi per arrivare dalla sua amica. Una marcia propiziatoria, è convinto che questa impresa la salverà. Dunque un gesto romantico ma pure un po’ folle. Che neanche la stagione avversa riesce a scoraggiare. Così il 23 novembre, armato di una bussola e una sacca modesta, si incammina verso la Francia. Ogni giorno, raduna su un diario gli appunti di viaggio. Questo materiale, in seguito, sarà pubblicato in un libro istruttivo, “Sentieri nel ghiaccio”.
Lui è Werner Herzog, cineasta tedesco eccentrico ma sempre lucido: il suo talento ha costantemente allineato guizzi surreali a un efficace realismo. Insofferente ai miti celebrativi del progresso, nelle sue opere racconta volentieri personaggi inquieti, logorati da vicende irrisolte. Personaggi estremi, proprio come questa sfida. Lei, invece, è Lotte Eisner, storica e studiosa del cinema, legata al regista da una complicità affettiva ma talvolta anche professionale (nel film “Fata Morgana”, girato nel 1971, presta la sua voce al testo fuori campo). Ma l’amicizia non è l’unico motivo del viaggio. C’è pure un desiderio di misurarsi, un’ansia di solitudine che scorta un itinerario geografico che diventa emotivo. In fondo, la meta è forse l’alibi per autorizzare un azzardo assoluto. Angerhof, Schöngeseing, Klosterlechfeld, Kirchheim, Haselbach. Herzog attraversa terreni impervi, lande remote, villaggi ignoti a turisti prudenti. Si oppone alla neve che, mai indulgente, improvvisa vere e proprie bufere. I piedi soffrono ma non si arrestano. Unterröth, Vörhingen, Sontheim. Spesso ricorrono le gelate, a coprire sentieri su cui muoiono gli animali che non hanno fatto in tempo a fuggire. Le nubi, poi, hanno un aspetto così minaccioso: basse, cupe, insinuano angoscia. “Fosca, severa solitudine del bosco intorno, quiete di morte, solo il vento si muove”.
La riva del Danubio, Zwiefgalten, Tailfingen. Per giorni non incontra nulla: né uomini né abitazioni. Davanti, solo una terra di nessuno, nella cui ostilità riconosce però la sua teoria del mondo, intrisa di un pessimismo bruciante che fa del presente la realizzazione del vuoto. Sperimenta situazioni ardue che però non minano la sua convinzione, non arrestano i piedi impegnati in questa marcia devota. Indifeso, l’uomo lotta contro un ambiente che vuole sopprimerlo. Circostanza non sconosciuta per Herzog, che in “Aguirre, furore di Dio”, del 1972, ha tracciato il profilo di un conquistatore (peraltro, magistralmente interpretato da Klaus Kinski) che, ossessionato dall’Eldorado, sfida la foresta amazzonica finché, vinto, non muore. Lui, invece, resiste. Un tema analogo, comunque, tornerà nel 1981 con il tormentato “Fitzcarraldo”: anche qui, un uomo solo che combatte fiumi e montagne.
Adesso, esausto ma persuaso, Herzog utilizza ripari di fortuna forzando case non abitate. Talvolta si concede il conforto di una pensione, in cui sconta però gli sguardi perplessi, solo raramente solidali, degli altri. Nella sua figura trascurata sospettano infatti un vagabondo da ignorare. Ma anche l’umanità che incrocia è tutt’altro che conciliante: menomati, anziani ciechi, donne sole che contano i lutti. “Ho visto una vecchia, piccola, con le gambe storte, con la follia dipinta sul viso, andava a vendere il “Build am Sontag”. Una rassegna antropologica quasi deforme, che evoca le allucinazioni di Van Gogh come le smorfie dolenti di Munch. Ancora una volta, però, questi incontri gli sono familiari: è agli emarginati che spesso dedica la sua attenzione, dai nani facinorosi di “Anche i nani hanno cominciato da piccoli”, del 1970, a “L’enigma di Kaspar Hauser”, girato nel 1974, storia di un giovane che non riesce a parlare, esibito perfino come fenomeno da baraccone (e del quale ci occuperemo in un prossimo numero di Storie). Quasi un incontro fatale con i compagni del suo immaginario. Ci sono momenti in cui il paesaggio riserva prospettive meno drammatiche, diventando addirittura una promessa di serenità. Poi, di nuovo la lotta, il disagio. E affiora “il sentimento che tutto è privo di senso”.
Tailfingen, la Foresta Nera. Chissà se la Eisner è ancora viva. Eppure, Herzog ha trovato il ritmo giusto. Scongiurati gli agi della vita moderna (“Quanto siamo diventati noi stessi - le auto in cui viaggiamo”), ora osserva le cose da una prospettiva diversa, quella, cioè, di un’andatura lenta ma stimolante in cui i sensi, vigili, allenano la percezione. La velocità dunque come un ostacolo: “Camminando passano tante cose per la testa, il cervello ferve”. Herzog osserva, annusa. Ecco, guardarsi intorno disponendo di un tempo imprecisato, cadenzato solo dai passi. Elabora così riflessioni meticolose, talvolta perfino esasperate, attardandosi con rigore scientifico su ogni dettaglio che scova. Anche il più marginale. Quindi seziona, immagina, congettura. Raccoglie biglietti scarabocchiati e, avido, li legge, da un foglio di parole crociate immagina un risolutore brillante ma disordinato, ipotizza perfino un delitto da una bicicletta gettata su un fiume. Insomma, indizi per presumere altre esistenze. Gli oggetti, poi, offrono spazio a strane somiglianze, come le scatole vuote di sigarette il cui aspetto gonfio e sfumato, dovuto alla pioggia, fa pensare a un cadavere. O, ancora, lo stupore provocato dai ratti: “Quanti topi vedo. Nessuno di noi ha idea di quanti topi ci sono nel mondo. Solo chi cammina vede i topi”. Annotazioni che avvicendano cronaca e immaginazione, resoconti di impronta documentaristica e metafore visionarie. Finalmente, la provincia francese: Fouday, Rambervilliers, Romexy, Charmes. Neufchateau. Mentre avanza solidarizza con bestie che, come lui, errano mute e un po’ malinconiche.
Con frequenza un po’ maniacale scruta gli uccelli, fino alla certezza che anche a lui spunteranno le ali. Altre volte si percepisce immane e pesante come un mammuth. Ciò che conta è l’andare, questo vagabondaggio prezioso per sapere il mondo. D’altronde, la mobilità come fonte di apprendimento è una tattica antica: dall’evoluzione dell’uomo preistorico, che ha imparato a viaggiare per non soccombere, ai pellegrinaggi suggeriti da Cristo e Budda fino alle escursioni geografiche che hanno svelato la terra. E poi, le avventure di Conrad, il nomadismo ribelle di Kerouac e quello inquieto di Chatwin. Con quest’ultimo Herzog condivide la passione per i tragitti affidati alle gambe (“I pensieri più belli li ho avuti camminando”, scriveva Chatwin). Una volontà pionieristica che quasi sfiora il misticismo. Scandita dalla stessa determinazione di un uccello che migra verso il luogo assegnato. Herzog infine ci arriva, in quel luogo, a Parigi, a casa della sua amica. E trascorso un mese. Come sollevata da un sortilegio, Lotte sopravvive.
E, allora, lui la avverte con misteriosa consapevolezza: “Apra la finestra. Da qualche giorno io so volare”.
Da “Storie”, n. 24, novembre ’96 – febbraio ’97, a. VI, pp. 32-34