Scrivere fa diventare carne i pensieri e le parole, dona loro un peso, una consistenza, una vita. Sì, un po’ come il soffio, il respiro che crea. Qui si gioca tutto sul bianco e sul nero dei caratteri che diventano storia, uscendo dai labirinti della mente, dai giardini vididi dell’immaginazione, dalla celle segrete in cui ognuno di noi, alla fine, si trova a fare i conti, da solo, con le moltitudini della sua solitudine.
Ci sono scritture ariose, altre grevi. E scritture razionali, bilanciate da virgole, sospese da punti, misurate dalla parsimonia di avverbi e aggettivi.
E ci sono scritture impetuose, che tutto travolgono, che indondano le pagine e dilagano, fuggono via attaccandosi addosso alle persone, scaldando le loro notti insonni, unendo il loro destino a quello dei lettori che le hanno avvicinate. Ci sono scritture che vivono sulle immagini, che procedono solo per campi visivi, e altre invece più astratte, come un quadro di Hescher. Scritture che amano le descrizioni, che sostano sulla minuzia di dettagli quasi ossessivi, e scritture invece che pungono per le laconiche trafitture di poche parole. Alcune scritture sono fuoco, altre ghiaccio. Nella grammatica della scrittura ci sono l’algebra e la filosofia, il disegno e la storia.
Compassi che tracciano creature che nascono e non muoiono mai, superano il perimetro chiuso del loro creatore e volano via, negli spazi infiniti che dal libro rimbalzano sulla vita di ogni lettore. Ogni parola scritta ha una sua personalità, un carattere unico, come quello di chi l’ha generata. Perciò dovremmo forse pensare, quando scriviamo, a non sciuparle mai, a non buttarle via e nemmeno a trattenerle, in quel magico equilibrio che traccia il confine tra l’ispirazione e la sua realizzazione.