Bruce Chatwin era un gran camminatore. E uno scrittore capace di affabulare, incantare con le sue storie di viaggi e paesi. Senza lasciarsi mai sfuggire l’estetica degli oggetti d’arte, a cui era morbosamente legato. Nomade inquieto (non a caso scrisse un libro intitolato “Anatomia dell’irrequietezza”), viaggiatore instancabile, considerava la casa “un luogo dove appendere il cappello”. Ancora oggi, anni dopo la sua morte (morì di Aids nel 1989), di lui resta una testimonianza preziosa, d’arte, vita, di nomadismo geografico e interiore. Gli amanti del viaggio e della letteratura amano i libri di questo “pazzo esploratore”, come lui stesso si definiva, che viaggiò dall’Australia alla Patagonia raccontando storie di ogni tipo. Sì, Chatwin viaggiava, narrava, e fra le cose che più adorava c’era il camminare.
Camminare, sempre. “I pensieri più belli li ho avuti camminando”, scrisse su uno dei suoi preziosi taccuini. “Anatomia dell’irrequietezza” e “Le vie dei canti” sono un inno al camminare, al muoversi a piedi, senza mezzi (un po’ come Terzani che scoprì la bellezza di viaggi senza aereo, fatti solo in treno o in barca).
Scrittori, viaggiatori. Cosa hanno in comune lo scrivere e il camminare? Sono entrambi “esercizi dell’anima” perché ci pongono in un contatto profondo con noi stessi, con le nostre parti più intime.
A patto però che lo facciamo da soli. “Scrivere a quattro mani” mi ha sempre inquietato, perché la scrittura esige una voce sola, se vuole scavare in profondità. Se le “quattro mani” compongono invece due sezioni del libro opportunamente separate, la cosa è diversa. Così come anche il viaggio: il vero viaggiatore è sempre solo. Viaggiare soli implica la conoscenza di parti inesplorate di sé, così come lo scrivere. E, mentre si viaggia, di solito si cammina molto, a piedi, per osservare bene ciò che incontriamo.
Camminare vuol dire scoprire, scoprirsi. Fa bene al corpo ma fa bene sopratutto all’anima. Chatwin sosteneva che i bambini delle tribù nomadi piangono molto meno dei nostri bambini: portati sempre in giro dalla mamma che li fa dondolare mentre si muove (sono infilati all’interno di una sorta di sacco portato addosso), placano le loro tensioni muovendosi in continuazione. E il movimento cura, addolcisce, tempra. Camminare può diventare una vera e propria meditazione, se lasciamo che la mente segua un po’ di disimpegno lasciandosi andare al movimento. “Passeggiavo per le strade di Buenos Aires in una serenissima vacanza della mente”, scriveva Borges in un racconto.
Ma camminare può essere anche una meravigliosa, incredibile fonte di ispirazione. Chi scrive infatti spesso ha l’ispirazione proprio mentre è in movimento, per questo è bene portare sempre con sé un taccuino per annotare le parole che sbocciano dentro. Scrivere, camminare. Due momenti apparentemente opposti (uno dinamico, l’altro sedentario) che in realtà hanno in comune l’esplorazione delle mappe interiori, e l’incanto del contatto con sé stessi. Chatwin è un ottimo esempio di questa felice danza della creazione, dell’immaginazione, della ricerca e scoperta di noi, e dunque del mondo che ci fa da specchio.
Leggi tutti gli editoriali