Da Il Laboratorio del Segnalibro, n. 1, Giugno 2000.
Gli italiani leggono poco? È vero. Scrivono tanto, però. Un'attività encomiabile, specie in un contesto dominato dall'ottundimento del cervello davanti al televisore. Tuttavia quest'attività frenetica, a volte davvero ossessiva, genera il caos nelle case editrici. E diventa sempre più difficile separare la qualità dalla quantità...
di Francesca Pacini
Ne Il pendolo di Foucault un personaggio afferma che la principale attività di una casa editrice consiste nel perdere i manoscritti ricevuti. Un’esagerazione, certo, tuttavia la consueta arguzia di Eco focalizza un problema bruciante. Quello, cioè, che anima il sentimento a volte scoraggiato delle case editrici verso i "manoscrittari". Perché tutti, o quasi, hanno scritto qualcosa. Se provassimo a gettare uno sguardo dentro le finestre di un condominio (un po' come fa la telecamera di Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino) esitando sulla vita dei vari personaggi che la nostra panoramica riesce a individuare, una sbirciatina nelle loro scrivanie metterebbe in rilievo una massa cartacea, una serie di fogli magari rilegati in maniera rudimentale, con gli anelli da materiale universitario... è il loro libro. Il loro sogno che giace nel cassetto (o, appunto, appoggiato audacemente sopra la scrivania) in attesa dell'invio a una casa editrice.
Se il nostro condominio fosse abitato da una ventina di persone, avremmo la probabilità di trovare almeno sedici manoscritti. Perché se è vero – come è vero – che gli italiani leggono poco, è altrettanto vero che scrivono tantissimo. Ecco, quella signora al primo piano attende che i figli siano andati a scuola, il marito pronto con la cravatta stirata, li saluta agitando la sua manina… e poi si siede, comincia a sfogliare le sue memorie appena terminate. Nel frattempo suona il postino per consegnare all'avvocato del terzo piano la documentazione storica per il romanzo sulle toghe del XIV secolo. Pensa, il postino, al suo ritorno a casa, la sera, per ritrovarsi nella familiarità della sua stanza dove continua la sua fatica letteraria: ha in mente un diario tra amanti. E lassù, all'ultimo piano, lo studente biondo approfitta dell'assenza della madre per portare a termine il suo giallo sugli hackers. Sarà un successo, sicuramente lo spedirà ai più grandi editori. Il vicino, un vecchio professore universitario in pensione, vuol cogliere con la penna la degenerazione della società di inizio millennio. Insomma, tutti scrivono, tutti sognano di raccontare una storia.
E il popolo di narratori e poeti marcia – via posta – verso gli editori. Perfino i bambini (Io speriamo che me la cavo) hanno qualcosa da insegnare – giustamente – agli adulti. E se Suor Germana è così famosa con le sue brave ricette, perché non devono diventare un successo anche quelle di nonna Gertrude? Un punto a loro favore: meglio un sano esercizio espressivo piuttosto dell'annichilimento davanti al piccolo schermo. Certo. Purtroppo, però, l'ossessione per la scrittura intasa le case editrici trascinando con sé, oltre ai lavori dignitosi, anche tanto ciarpame. Sempre Eco, infatti, scrive: "Non tentiamo di essere ottimisti su vegliardi, moribondi, afasici, schizofrenici, pazzi criminali, catatonici e depressi cronici (altrimenti dovremmo cancellare con un colpo di spugna due terzi della letteratura mondiale)”.
Sconfortante, il calcolo matematico azzardato da Fabio Mauri, – che ha lavorato alla Bompiani per vent'anni – soprattutto se consideriamo che risale a una decina d'anni fa e la situazione non è certo migliorata: se 50 milioni di italiani producono ad ogni generazione (venticinque anni) almeno un manoscritto, ogni casa editrice riceve in media 500.000 manoscritti ogni venticinque anni, che fanno 41.666 all'anno, 3.472 al mese e 115 al giorno. 115 manoscritti da dare in lettura ai redattori editoriali. Che devono barcamenarsi per isolare quelli scadenti da quelli che godono invece di una certa qualità. Quando la scrittura è visibilmente indecente ("Se lo avrei visto l'avrei fatto di quore") il problema si ridimensiona. Che dire, però, quando nelle prime pagine non c'è ombra di tracollo grammaticale e sintattico?
Bisogna andare avanti, attardarsi su copiose porzioni di testo per verificare la presenza di "macchie" in odore di banalità, accertandosi se un saggio, ad esempio, dopo un esordio più che invitante non crolli in picchiata a metà manoscritto. Un lavoro da certosino, davvero. In questo contesto assai scoraggiante, in cui non bisogna dimenticare le reiterate telefonate di megalomani irritati perché non hanno ancora ricevuto notizie sul loro capolavoro di nuovo millennio e le sempre attive raccomandazioni siglate dal personaggio in voga di turno, ha ragione Eco quando afferma che "la letteratura, e la cultura in genere, è un'attività sociale".
Altro che cenacolo per pochi eletti, almeno all'interno di una casa editrice! Mobilita, invece, un sovraccarico di linee postali e telefoniche, sgomitatine e clientelismi. Un gigantesco "blob" che racchiude ogni sorta di scritto.
In questo calderone le case editrici devono raccapezzarsi, cercando di separare la Qualità dalla Quantità.
E per far questo, per scovare una perla nell'oceano di carta, capita spesso che molte altre piccole gemme per l'affollamento finiscano distrutte insieme alla massa di manoscrittari da strapazzo. Così è, purtroppo. L'eccesso di materiale porta a una involontaria censura. E anche allo smarrimento del manoscritto. Certo, è anche vero che vengono stampati molti libri scandalosamente brutti. Ma questa è un'altra storia, ne parleremo altrove…