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Lo scrittore e la vita, parte II

Lo scrittore e la vita, parte II

di Virginia Woolf

(Estratto da un saggio che apparve per la prima volta sul New York Herald Tribune il 7 novembre 1926)

 

Ma se questa sensibilità è una delle condizioni della vita del romanziere, è ovvio che tutti gli scrittori i cui libri sopravvivono al tempo abbiano imparato a padroneggiarla e a renderla funzionale ai loro propositi. Hanno finito di bere il vino, hanno pagato il conto e se ne sono andati, da soli, in qualche stanza solitaria dove, con fatica e indugio, talvoltain agonia (come Flaubert), tra ansia e conflitti, o in modo tumultuoso (come Dostoevskij) hanno saputo padroneggiare le loro percezioni, le hanno condensate e trasformate nel tessuto della loro arte.

Questo processo di selezione è talmente drastico che spesso nella fase finale del capitolo scritto non troviamo nessuna traccia della scena da cui è scaturito. Perché in quella  stanza solitaria, la cui porta i critici tenteranno eternamente di aprire, si verificano i processi più strani. La vita viene sottoposta a migliaia di prove e di esercizi. Viene tenuta a freno; viene uccisa. Viene mischiata a questo, addensata con quello,contrastata con quest’altro; così, quando dopo un anno avremo la nostra scena al caffè, i segni della superficie per cui la ricordavano sono scomparsi. Dalla foschia emerge qualcosa di consistente, qualcosa di forte e resistente, l’osso e il midollo su cui si fondava il flusso di disordinate emozioni.

(…)

Per sopravvivere al tempo, ogni frase deve avere, al suo centro, una scintilla di fuoco, ed è questa che lo scrittore, per quanto corra il rischio di bruciarsi, deve cogliere dalla fiamma con le mani. la condizione del romanziere è quindi precaria. Egli deve esporsi alla vita; deve correre il pericolo di essere sedotto e trascinato dai suoi inganni; deve strapparle il tesoro e lasciare che i suoi scarti vadano al macero. ma a un certo punto deve lasciare la sua compagnia e ritirarsi, da solo, in quella stanza misteriosa dove il suo corpo rimane come irrigidito e immobilizzato da processi che, per quanto eludano il critico, mantengono per lui un fascino profondo.

 

Estratto da un saggio che apparve per la prima volta sul New York Herald Tribune il 7 novembre 1926

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